Bjorn Larsson è svedese ma si sente anche francese e, da un po’ di tempo, italiano. Come dice lui, è un “pendolare” fra diversi paesi e non gli piace essere classificato con una sola nazionalità. “Anche se in questo momento prevale la ricerca di una identità nazionale, io credo che alla fine contano le persone”, ha detto, in buon italiano appena velato da un accento nordico, in un’intervista all’Agi. Da non confondersi con il quasi omonimo Stieg Larsson, sfortunato autore della fortunata trilogia Millennium, pubblicata postuma, Bjorn ha raggiunto il successo una ventina di anni fa con una serie di libri di ambientazione marina e soprattutto con Il Cerchio Celtico e La vera storia del pirata Long John Silver. Dallo scorso dicembre è in pensione dalla cattedra di Letteratura francese all’Università di Lund, e si dedica alla scrittura, abitando fra la Svezia e l’Italia, dove vive la compagna salentina Titti. Il suo editore italiano, Iperborea, ha appena pubblicato l’ultimo romanzo, La lettera di Gertrud, che tratta un argomento completamente nuovo per Larsson, collegando il dramma della persecuzione degli ebrei alla questione dell’identità.
Come mai ha scelto di dedicarsi a una questione così lontana dai libri precedenti?
“Le fonti di ispirazione sono tre. Anche se non sono ebreo, mi sento sradicato: non mi sento di un solo paese. Anni fa sono andato in Canada a incontrare un docente di letteratura scandinava che voleva a tutti i costi inserirmi in un’antologia di scrittori ebrei scandinavi, perché gli piacevano i miei romanzi. Mi ha chiesto di approfondire le mie origini: ma io ho pensato che non vorrei mai far parte di un gruppo letterario di ebrei svedesi, ma neanche di autori svedesi. Che cosa cambierebbe, ho pensato, sapere qualcosa di più sulle mie origini? Ma se ho voluto parlare di identità è anche per una motivazione esistenziale: ho l’impressione che tutti abbiano bisogno di appartenere a un gruppo, escludendo gli altri. La terza ragione è il desiderio di affrontare una sfida e di mettermi in gioco affrontando una storia così controversa, problematica, prima con l’Olocausto e oggi con Israele. Avrei potuto scrivere un altro romanzo di mare, tutti sarebbero stati contenti, ma non ho voluto”.
Solo dopo la sua morte Gertrud fa sapere al figlio Martin della sua origine ebraica, lasciandolo libero di scegliere se tenere il segreto per sé o se invece affrontarlo. Come è nata questa idea?
“Sta all’immaginazione dello scrittore trovare una situazione che gli consenta di raccontare ciò di cui vuole parlare. Per la questione ebraica, è scattata questa idea della mamma che ha passato la vita a nascondersi e che lascia il figlio nella situazione radicalmente unica di poter scegliere. Non è circonciso, non è stato educato per niente nella cultura ebraica e nessuno avrebbe da obiettare sulla sua scelta. Gli ebrei sarebbero contenti, ma gli antisemiti altrettanto, avendo uno in più da odiare, mentre gli indifferenti resterebbero tali. Per Martin è una scelta identitaria, perché oltretutto è ateo e non c’è quindi bisogno di una conversione”.
Il suo libro esce mentre ci sono segnali di ripresa dell’antisemitismo, non solo in Italia ma anche, per esempio in Francia. Lei è un personaggio internazionale: il suo romanzo vuole essere “educativo”?
“Non sono internazionale, è una definizione troppo astratta. Mi sento piuttosto transnazionale: svedese, ma anche francese e italiano e poi ho vissuto 15 anni in Danimarca e un anno ciascuno in Irlanda e Spagna. Quanto alla Lettera di Gertrud, non è un romanzo a messaggio, ma serve a mettere un punto in questione: del resto, è così che i romanzi devono essere. Però, per esempio, è scritto senza essere ambientato in un luogo geografico o in un momento preciso. Si cita solo la Germania, per ragioni storiche, ma potrebbe svolgersi in un qualsiasi paese europeo: l’obiettivo è segnalare in sottofondo che non si può dire che si tratta di un problema italiano o francese o altro, oppure di oggi o di domani o di ieri”.
Non è preoccupato di quanto accade in questo periodo in Europa?
“Lo sono, ma non nel romanzo. L’ho iniziato sette anni fa ed esce proprio adesso, quando c’è un picco che corrisponde al tema che tratta. Non si deve mai scrivere pensando all’attualità. E la situazione non è peggiorata se si pensa ad altri periodi storici: si dice che c’è più antisemitismo, e forse è vero se paragonato a 10 anni fa, non certo a prima o durante la Guerra, per non parlare del Medio Evo quando Spagna, Inghilterra e Francia cacciavano tutti gli ebrei. Non è peggiorato: è come prima, purtroppo. La cosa che succede è che l’odio ha più visibilità a causa della diffusione dei social media”.
Una sua connazionale, la giovanissima Greta Thunberg, sta smuovendo le coscienze sulle questioni ambientali. Come vede la situazione in Italia?
“Tutte le iniziative in questo senso sono le benvenute. Greta Thunberg è un po’ speciale anche per noi svedesi: questa fiducia in sé, parla con i potenti, va a Bruxelles… ha detto che le serve un impegno forte per qualcosa che sia bianco o nero, altrimenti si sente persa. Noto però che in Italia l’ambiente non appassiona né i politici né la gente. Il figlio della mia compagna usa i bicchieri di plastica e si stupisce che io non lo capisca: eppure ha 21 anni, studia scienze politiche... Pensare all’ambiente significa che ognuno prende una parte di responsabilità per il bene pubblico, cosa abbastanza rara in Italia dove si aspetta che i politici facciano questo. Forse noi svedesi siamo più sensibili perché abbiamo una natura da salvare, le foreste: siamo abituati a prenderci cura di una natura che ci ha fatto vivere. Qui in Italia il sogno di ogni giovane, considerato quasi un diritto umano, è di avere la macchina: io non l’ho mai avuta, e anche se ho la patente non voglio guidare se non è necessario. Qui questa scelta non esiste. E poi tutti parlano della plastica negli oceani ma persino le pizze, che prima erano nei cartoni, ora le danno nella plastica”.
Fra poco ci saranno le elezioni europee: qual è il suo sentimento nei confronti dell’Unione europea?
“Sono pro Europa ovviamente, ma non per le ragioni economiche di cui tutti parlano. Sono europeo perché quando ho deciso a 20 anni di andare in Francia per far finta di fare lo scrittore nei caffè di Parigi, 45 anni fa, ero un clandestino. Non c’era Schengen e prendevo il treno di notte per non farmi timbrare il passaporto e potermi fingere un turista, almeno ero tranquillo per due settimane. Molti anni dopo, quando ho comprato la mia barca a Marsiglia è stata caricata su un camion senza bisogno di autorizzazione. Oggi tanti giovani studiano in altri paesi, mia figlia è stata a Reykjavik per l’Erasmus. Quando c’è un beneficio, dopo un po’ di tempo la gente lo dà per scontato, invece non lo è. Ero a Edimburgo un giorno, e c’era una partita di rugby fra Francia e Scozia. Mi piace molto il rugby, e mi piace la Scozia, ci ho navigato a lungo. C’era una mostra sui Celti al museo nazionale di Scozia. In un’edicola ho comprato una copia di Le Monde, sono entrato in un bar, ho sentito una canzone di De André e ho chiacchierato in italiano con i due ragazzi che lo avevano aperto. Io, svedese, visitavo una mostra sui celti leggendo un giornale francese e parlavo nella loro lingua con due italiani che lavoravano in un paese anglosassone: questa per me è l’Europa e perderla sarebbe perdere un bene enorme. L’economia non è la prima ragione, ma la libertà di viaggiare, studiare, avere amici, amare e lavorare in più paesi”.
Che cosa pensa della Brexit?
“Gli inglesi saranno costretti a imparare altre lingue! Senza saperlo, quasi trent’anni fa nel Cerchio Celtico avevo previsto l’indipendenza della Scozia e dell’Irlanda del Nord. Ovviamente, se ci sarà una Brexit dura, gli scozzesi se ne andranno. Una quindicina di anni fa lo Scottish National Party ha cambiato strategia dichiarando di essere partito europeo. Ora ha la maggioranza assoluta, e la Scozia è l’unico paese celtico in cui non c’è mai stata violenza politica contro gli inglesi. È un bell’esempio. Quanto all’Irlanda del Nord, i cattolici hanno da sempre fatto più bambini dei protestanti ed è la ragione per cui sono stati sempre osteggiati, al di là della religione. Ora non manca molto al sorpasso e quando i cattolici saranno di più, diciamo fra 10 anni, l’Inghilterra sarà uscita dall’Unione e ci sarà stata un’altra esperienza difficile di frontiera dura, magari con qualche rigurgito del terrorismo: l’Irlanda del Nord si riunirà all’Irlanda e dall’altra parte rimarrà un piccolo paese che si chiama Inghilterra”.