Durante l’ultima epidemia di Ebola, che tra il 2014 e il 2016, causò più di 11 mila morti in tre Paesi dell’Africa occidentale, gli scienziati occidentali hanno trafugato circa 269 mila campioni di sangue, di gran parte dei quali si sono perse le tracce.
Lo ha rivelato il quotidiano francese ‘Le Monde’ in una vasta inchiesta finanziata dal Centro europeo di giornalismo nell’ambito di un programma dedicato alla salute mondiale, sponsorizzato dalla fondazione Bill e Melinda Gates.
Che fine hanno fatto i campioni infetti?
Molti dei dati alla base del reportage sono stati forniti dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) mentre le istituzioni dei Paesi coinvolti – Francia, Regno Unito e Stati Uniti – non hanno collaborato all’inchiesta perché la questione è considerata come 'classificata', ossia segreta. I campioni furono caricati a bordo di voli speciali, in condizioni non proprio trasparenti, raramente seguiti da scienziati dei tre Paesi colpiti dal virus: Repubblica di Guinea, Liberia e Sierra Leone.
Una parte minima di questi 269 mila campioni segnalati dall’Oms sono stati analizzati in laboratori ad alta sicurezza, tra cui il Center for Disease Control and Prevention, l’agenzia incaricata della sanità pubblica negli Stati Uniti, con sede ad Atlanta. Centinaia di fiale di sangue contaminato da uno dei virus più letali al mondo sono stati irradiati, per renderli innocui, e successivamente rispediti indietro.
Frigoriferi chiusi con un lucchetto
Il dipartimento di Stato Usa temeva che le fiale, stoccate a Conakry in frigoriferi chiusi con semplici lucchetti potessero finire nelle mani di ricercatori inesperti, col rischio di propagazione accidentale dell’Ebola, o peggio potessero finire in mano ai terroristi.
La distruzione dei campioni in loco, ha spiegato l’epidemiologo Pierre Rollin, esperto di Ebola, faceva correre un rischio maggiore di perdita dei prelievi e delle informazioni mediche e biologiche molto utili alla comprensione della malattia. Oggi questi campioni sono conservati nel Laboratorio nazionale delle febbri emorragiche alla periferia di Conakry.
Una missione simile è stata svolta anche in Liberia, dove l’esercito Usa ha censito e prelevato 5 mila campioni a Monrovia, spedendoli a Fort Detrick nel Maryland, sede del più importante centro di ricerca in biodifesa statunitense, l’Usamriid. Anche il questo caso i campioni son stati messi in sicurezza dagli scienziati americani, mentre è tramontata l’idea di creare una ‘Biobanca’ in Liberia per consentire alle generazioni future di portare avanti ricerca sull’epidemia.
Ma in realtà i campioni resi innocui dagli Usa rappresentano solo una piccola parte del sangue prelevato durante l’epidemia.
24 mila campioni positivi
Per l’OMS in quel periodo ben 269 mila prelievi sono stati effettuati, dei quali 24 mila sono risultati positivi (in Sierra Leone 151 mila campioni, in Liberia 71 mila, in Guinea 47 mila). Molti di questi sono stati analizzati in loco da team venuti da Russia, Canada, Cina, Stati Uniti e Europa, in competizione tra di loro per ottenere dati nuovi da pubblicare sulle più prestigiose riviste scientifiche.
In un contesto di emergenza, come quella della grave epidemia di cinque anni fa, buona parte delle provette sono però andate perse. “La priorità era la rapidità e l’affidabilità delle diagnosi. Molti dei ricercatori hanno conservato i campioni più interessanti, inviandoli nei rispettivi Paesi per studiarli” ha rivelato Michel Blanchot, ex farmacista al Servizio di salute delle forze armate francesi (SSA). “In quel contesto la Guinea era un colabrodo, con aerei Onu che trasportavano materiale mentre le squadre mediche atterravano ovunque, senza alcun controllo di polizia e dogana, quindi era impossibile garantire la sicurezza dei campioni” ha ancora raccontato Blanchot.
Un’altra parte dei campioni sarebbe stata progressivamente distrutta mentre altri sono stati portati via anche per posta o dentro una semplice valigia. Accordi bilaterali sono stati siglati tra paesi africani e occidentali, “ma non abbiamo avuto accesso agli aspetti tecnici, per non parlare poi delle considerazioni politiche dietro intese poco trasparenti” ha detto Pierre Formenty, responsabile del dipartimento delle febbre emorragiche virali all’Oms.
La diplomazia del sangue
Dietro le quinte è stata attuata una vera diplomazia del sangue tra Paesi colpiti dall’epidemia e Paesi che ospitano gli istituti di ricerca che conservano parte di questa materia prima molto preziosa per sviluppare nuove armi contro il virus, tra cui diagnosi, medicinali e vaccini" sottolinea l’inchiesta pubblicata da ‘Le Monde’. Senza successo l’OMS ha cercato di realizzare un inventario, mentre l’idea di creare una ‘Biobanca’ per condividere le informazioni è caduta nel dimenticatoio.
Ad oggi i campioni sarebbero quindi conservati presso decine di centri ai quattro angoli del pianeta, tra cui l’Istituto Bernhard-Nocht (BNI) di Amburgo in Germania, il Public Health England (PHE) di Porton Down e il laboratorio P4 dell’Inserm a Lione (Francia), parte del consorzio europeo EMLab. I responsabili assicurano di aver portato avanti le ricerche ai massimi livelli con le tecnologie a disposizione, ma “questo tesoro che potrebbe essere molto utile tra 10 o 20 anni rimane di proprietà del paese di origine, la Guinea, e verrà restituito quando avrà le strutture adeguate per conservarlo” ha riferito Stephan Günther del centro di Amburgo.
L’altro nodo dell’intera vicenda riguarda l’anonimato dei campioni e il consenso preliminare dei pazienti per poterli analizzare: in circostanze di emergenza entrambi i criteri non sono stati rispettati, ma questa è stata una violazione palese dei diritti dei pazienti. “Utilizzano il mio sangue senza alcuna autorizzazione per fare le loro ricerche, per produrre medicinali e quindi fare soldi” ha denunciato un sopravvissuto liberiano Isaac Seeman, che durante l’epidemia ha perso la moglie e i tre figli. Eppure il protocollo di Nagoya contro la biopirateria, che stabilisce obblighi ben precisi su accesso e condivisone di dati, è entrato in vigore nell’ottobre 2014, pochi mesi dopo l’inizio dell’epidemia di ebola in Africa occidentale.