“Sì, la legge dice che le donne saudite possono guidare. Ma è chi esercita la custodia su di loro, cioè gli uomini, che decide se e quando possono farlo concretamente”. Nell’Arabia Saudita che da noi suscita indignazione per via dell’accesso – negato e poi concesso almeno in parte - delle tifose alla finale di Supercoppa Italiana di calcio di Gedda, a preoccupare sono però altri diritti, più basilari: le donne saudite sono costrette in “una condizione di asservimento che dura una vita intera”, racconta all’Agi Omaima Al Najjar, blogger e attivista saudita che dall’agosto 2016 si trova in Italia come rifugiata politica.
L’espressione inglese che descrive il sistema in vigore in Arabia Saudita – male guardianship – è più efficace della traduzione italiana custodia maschile. Di che cosa si tratta?
In Arabia Saudita gli uomini godono del pieno diritto sulle donne su molti aspetti della vita, dall’educazione al lavoro, dalle possibilità di viaggiare all’accesso alle cure mediche, fino naturalmente al matrimonio.
In che senso pieno diritto?
Significa che le donne saudite non possono, per esempio, iscriversi a scuola o accettare un lavoro senza l’approvazione di un uomo.
Chi è il tutore (tecnicamente si chiama wali) delle donne?
Da giovani è il padre a ricoprire questo ruolo che, dopo il matrimonio della ragazza, viene assunto dal marito. In caso di morte del partner, o di divorzio, si ritorna sotto al genitore. Ma se questi fosse nel frattempo deceduto, e se non si avesse un fratello, sarebbe addirittura il figlio maschio della donna a diventarne il tutore. Pare ironico ma non lo è: la verità è che questo sistema priva la donna della possibilità di disporre di sé stessa. Dal giorno in cui nasce a quello in cui muore ha bisogno di chiedere permessi.
A proposito di divorzi, recentemente l’Arabia Saudita ha stabilito l’obbligo, per gli uomini, di comunicare almeno per via testuale la separazione dalla moglie.
Negli anni scorsi il fenomeno dei divorzi segreti era molto diffuso: gli uomini potevano separarsi dalla compagna senza neppure comunicarlo alla donna. Quanto stabilito ora non cambia di molto la situazione: le donne continuano a non poter divorziare perché per farlo hanno bisogno di tantissimi soldi. Se non li hanno, sono destinate a rimanere imprigionate nel circolo delle violenze domestiche.
Che origine ha questo sistema di custodia?
Il sistema è fortemente influenzato dallo status sociale della famiglia: la libertà delle donne, insomma, dipende dal trascorso dei genitori. Se questi hanno vissuto e studiato all’estero avranno una mente più aperta e le donne godranno di maggiori libertà, il contrario se invece provengono da famiglie tradizionaliste. Di fatto, comunque, non ci sono leggi che definiscono in maniera chiara che cosa le donne sono autorizzate a fare senza autorizzazione del tutore.
Il New York Times, in un articolo pubblicato a giugno 2018 in occasione dell’entrata in vigore del diritto di guidare accordato alle donne, citava alcuni dei divieti ancora in essere previsti dal guardianship system. “Il ministero dell’Istruzione saudita richiede un tutore per approvare l’iscrizione di una giovane donna a scuola”, per esempio. “Per studiare in una città diversa da quella di nascita, poi, serve l’approvazione dell’uomo”, come anche nel caso della richiesta del passaporto “per lasciare il Paese per motivi di studio”. Una situazione, quest’ultima, nella quale spesso è richiesto che un uomo accompagni fisicamente la donna. Obbligo di approvazione da parte del tutore anche nel caso di matrimoni, altrimenti giudicati non validi. In altre situazioni, il ruolo decisionale dell’uomo in questioni che riguardano le donne non è sancito dalla legge ma continua a essere abitualmente previsto: è il caso del lavoro, per il quale “aziende e pubblici uffici abitualmente chiedono alle donne di fornire il consenso del tutore per essere assunte”.
Pochi giorni fa una ragazza saudita diciottenne, Rahaf Mohammed al-Qunun, è scappata dai genitori cercando di raggiungere l’Australia per chiedere asilo.
Pare che stesse fuggendo dalle violenze della famiglia e da un matrimonio combinato. In Arabia Saudita se le donne si ribellano finiscono in carcere con l’accusa di disobbedienza. Per questo motivo molte ragazze cercano di scappare: il loro numero è in crescita e il motivo è soprattutto la violenza domestica. E credo che anche il governo sia consapevole del problema degli abusi.
Che cosa glielo fa pensare?
Quando ero infermiera nel mio Paese, mi pare che fosse il 2011, l’Arabia Saudita aveva avviato un corso per imparare a valutare se una donna o un bambino fossero stati vittime di violenza. Penso che il tema stia diventando parte della cultura del Paese, anche se più dal punto di vista medico che da quello sociale.
Qual è la sua opinione in merito alle riforme del governo saudita introdotte finora e a quelle previste dal Vision 2030, il piano di sviluppo il cui obiettivo – nelle parole del principe Mohammad bin Salman - è “costruire un Paese migliore sbloccando il talento, il potenziale e la dedizione delle nostre donne”?
I diritti concessi, come quello di guidare, sono superficiali perché rimane il custode delle donne a imporre loro che cosa possono fare. Vision 2030, invece, è un progetto economico e finanziario: l’Arabia Saudita sta attraversando una crisi economica, dovuta anche alla guerra in Yemen che non riesce a vincere, e ha un elevato tasso di disoccupazione (a luglio 2018 toccava quota 12,9% - in Italia, per fare un paragone, oscilla attorno al 10%, tre punti percentuali in meno, ndr). Credo che le riforme previste salveranno l’economia ma non le persone.
Dove si immagina nel futuro?
Da oltre due anni sono in Italia grazie a un passaporto da rifugiato politico ma nessuno vuole vivere in questa condizione per sempre. Ciononostante non penso che avrò la possibilità di tornare nel mio Paese: difficilmente vivrà un cambiamento sufficiente perché nessun partner commerciale vuole sacrificare i propri legami economici con l’Arabia Saudita. Diversi Paesi europei, oltre agli Stati Uniti, guadagnano molto dalle armi vendute a Riad.