Una conversazione in esclusiva di Agi con il generale Salvatore Cuoci, il 22esimo comandante della Kosovo Force, missione della NATO in Kosovo. Dal 1999 la missione garantisce pace e stabilità in una delle aree più difficili mondo.
Generale Cuoci, la guida italiana che Lei rappresenta che valore aggiunto ha portato, a suo avviso?
"Le Forze Armate italiane sono presenti nei Balcani e in KFOR in particolare, dall’inizio delle crisi che hanno portato alla dissoluzione della ex Jugoslavia. Su 22 comandanti della missione, ben 9 sono stati italiani e io sono il quinto Comandante italiano di seguito a guidare la missione KFOR. È esattamente dal 2013 che l’Italia ricopre questa posizione ed il mio successore sarà ancora italiano. La KFOR è l’unica missione NATO a guida italiana: credo che questo sia dovuto al fatto che alle nostre Forze Armate sia internazionalmente riconosciuta la capacità di operare in supporto alla pace. Abbiamo acquisito una conoscenza profonda del territorio, delle sue dinamiche, delle sue difficoltà, abbiamo rapporti consolidati con la popolazione e con i leader delle istituzioni locali e della comunità internazionale e tutto questo consente di operare bene".
Quale eredità ha ricevuto e quale eredità pensa di lasciare al termine della sua missione?
"La situazione generale del Kosovo è stabile ma ancora fragile. All’indomani del conflitto KFOR era presente con 55 mila uomini; ora, dopo quasi venti anni e col miglioramento delle istituzioni locali, sono poco più di 4mila. Sono cambiate le condizioni sul terreno: gli incidenti inter-etnici sono diminuiti e, oggi, solo il sito del Monastero ortodosso di Decani continua ad essere vigilato dai militari KFOR, mentre gli altri siti religiosi della Chiesa Serbo-Ortodossa, che erano considerati a rischio, sono protetti dalla polizia kosovara o addirittura non vigilati come il Monastero di Gracanica".
"Ciononostante ci sono ancora sfide da affrontare che impongono la presenza militare. La Risoluzione dell’ONU 1244 ancora prevede una situazione di “frozen conflict” tra Serbia e Kosovo e purtroppo, malgrado le buone intenzioni, non ci sono stati passi significativi in questo senso".
"Inoltre, la situazione economica è precaria: un elevato tasso di disoccupazione (oltre il 35% della popolazione) e il 65% di coloro che non hanno lavoro sono giovani di età compresa fra i 25 ed i 35 anni. Ritengo che la sfida più grande e più importante sia quella di risollevare l’economia e ciò potrà avvenire solo quando il Kosovo sarà in grado di avere stabilità politica. Recentemente è di attualità la trasformazione delle Kosovo Security Forces in Kosovo Army e questo credo, insieme alla continuazione del dialogo Pristina-Belgrado, sia la questione su cui focalizzarsi".
"Sul terreno lascio una situazione calma e sotto controllo senza evidenza di possibili tensioni, una popolazione che ha fiducia in KFOR e nel suo operato, un ottimo rapporto di collaborazione con le Istituzioni locali e quelle serbe e soprattutto una forza multinazionale coesa, motivata che, benché composta da 29 nazioni diverse, si muove all’unisono".
Il suo motto “Enduring commitment” ha un significato preciso: non abbandonare l’area e proseguire nello sforzo di pace. Anche se ormai la questione balcanica sembra non riempire più le prime pagine. Perché lo ha scelto e come lo ha interpretato e lo ha fatto interpretare ai suoi uomini in questi anni?
"L’ho scelto perché il nostro impegno in Kosovo deve mantenersi costante ogni giorno: è un territorio che merita attenzione e non si tratta assolutamente di una missione semplice. L’instabilità dei Balcani deve preoccuparci perché è da qui che sono iniziate guerre che hanno coinvolto gran parte del vecchio continente. La sicurezza in quest’area è una nostra priorità perché anche da essa dipende la sicurezza del resto dell’Europa. KFOR in Kosovo è l’Istituzione internazionale verso cui la popolazione locale nutre più fiducia, e genera una elevata percezione di sicurezza e stabilità. Condizioni che hanno consentito all’intera regione balcanica occidentale di beneficiarne".
Come è formata attualmente la KFOR? Che tipo di forze richiede, quanti uomini e che tipo di attività? Ci spieghi meglio.
"Attualmente KFOR conta circa 4000 militari appartenenti a 29 nazioni. Abbiamo due “Multinational Battle Group”, quello East a guida USA e il West storicamente a guida italiana, che rappresentano gli assetti cinetici di KFOR, quelli pronti ad intervenire in brevissimo tempo in caso di disordini, si occupano del pattugliamento del territorio e hanno quindi dei compiti prettamente “militari” nel senso più tecnico. Ad essi si aggiungono quattro Team con personale specializzato a contatto con la popolazione quotidianamente: sono presenti con propri uffici in tutte le municipalità del Kosovo e consentono di avere costantemente la situazione sotto controllo. Sono assetti fondamentali in questo momento storico della missione in quanto mantengono i legami con le istituzioni locali e ci consentono di essere costantemente informati".
"Al nostro lavoro si aggiunge quello dei nostri Carabinieri, che con la Multinational Specialized Unit (MSU) dal 1999 opera su tutto il territorio del Kosovo con focus particolare su Mitrovica. Si tratta di una città divisa nettamente in due aree: una serba e una kossovari. A tutte queste unità si aggiunge il Battagliane di Riserva Tattica di KFOR, a guida ungherese, in grado di essere dispiegato in tutto il Kosovo in tempi rapidi ed intervenire soprattutto per ristabilire l’ordine pubblico".
"Per meglio comprendere il ruolo di KFOR sul terreno oggi, va detto che la forza NATO agisce come terzo risponditore. Mi spiego meglio: in caso di disordini, il primo attore ad intervenire è la Kosovo Police che, qualora non dovesse essere in grado di fronteggiare la situazione, può disporre del supporto EULEX (ovvero la missione europea, ndr). KFOR, come terzo risponditore appunto, interviene nel caso in cui neanche EULEX sia in grado di riportare l’ordine e la sicurezza. In ogni caso comunque, KFOR è sempre pronta ad intervenire anche autonomamente nel caso in cui particolari condizioni sul terreno dovessero richiederlo, con attività volte ad evitare il degrado della situazione e il conseguente pericolo per la popolazione".
Recentemente anche il Montenegro è entrato a far parte della missione. Che cosa significa questo gesto e come è stato preparato?
"L’ingresso della Repubblica del Montenegro nella NATO prima e in KFOR lo scorso 23 ottobre è senz’altro un evento estremamente positivo. Segue l’esempio dell’Albania e il fatto che un Paese dei Balcani occidentali entri a far parte della missione KFOR e contribuisca alla sicurezza della regione non può che essere considerato un contributo efficace".
Un suo giudizio sulla presenza internazionale in Kosovo, ad esempio sulla riuscita di missioni come Eulex. E sui risultati ottenuti.
"La presenza della comunità internazionale in Kosovo risale al 1999, EULEX, insediatasi nel 2008, dopo dieci anni ha cambiato il proprio mandato trasferendo più autonomia alle autorità locali che nel frattempo hanno acquisito maggiori competenze e capacita’. Nonostante questo, la presenza della comunità internazionale è ancora necessaria".
Dal suo punto di vista, quali sono le criticità che rimangono? E quali sono state invece superate?
"Partiamo da quelle superate. La libertà di movimento e la sicurezza sono ormai garantite, non si registrano gravi incidenti interetnici come quelli del 2004 e del 2011. Il tempo del conflitto è certamente passato, ma ancora persistono le differenze ideologiche che separano i kosovari albanesi da quelli serbi. Parliamo del Kosovo come una terra piena di simboli, tra tutti il ponte di Mitrovica che unisce ma allo stesso tempo divide la città in due municipalità con sindaci, monete e lingue diverse. Personalmente ho avuto degli incontri sia con i sindaci di Mitrovica Nord e Mitrovica Sud e mi sono recato proprio su questo ponte simbolo dove i sindaci, con una stretta di mano cordiale insieme a KFOR da me rappresentata, hanno trasmesso alla popolazione la volontà di implementare i rapporti di collaborazione".
"Le condizioni create dalla presenza di KFOR rendono possibile la crescita del dialogo per guardare al futuro, per creare le prospettive di crescita per i giovani, abbandonando ogni tipo di retorica e riducendo ogni tensione. Tutto ciò potrà avvenire implementando il dialogo tra le capitali che è fondamentale per la stabilità di tutti i Balcani occidentali e concentrare tutti gli sforzi per accelerare la normalizzazione del processo tra le due città".
In un mondo che pare tornare verso i nazionalismi, i Balcani sono un osservatorio speciale. Vista la storia che hanno avuto e in parte anche subito, la situazione balcanica dal suo punto di vista può insegnarci ancora qualcosa?
"Ci insegna che all’indomani di una guerra violenta, fomentata dall’odio interetnico, il Kosovo si trova ad avere la popolazione più giovane del continente europeo, una generazione intera che non ha mai conosciuto la guerra ma ha davanti a sé un futuro incerto. Parliamo di giovani motivati e con un alto livello di scolarizzazione a cui viene negata tale possibilità di realizzarsi. Ho puntato molto sui giovani durante il mio mandato, essi rappresentano il futuro e su di loro bisogna investire ed è per questo motivo che il ruolo della classe politica diventa centrale, bisogna superare le ostilità legate al passato e lavorare seriamente alla costruzione di un Paese solido e credibile".
Gli organismi internazionali, come la Nato, appaiono in questa fase politica adombrati da leader dei singoli stati forti e col pugno duro. Ma il Kosovo dimostra che possono ancora dire qualcosa. Quale dovrebbe essere il loro ruolo in futuro? E quale è la loro importanza.
"KFOR è stata la missione di maggior successo della NATO dove la chiave è stata proprio il tempo: non si è avuta fretta e le condizioni non le ha mai dettate un calendario. Se si dovessero accelerare dei processi non ancora maturi, solo allo scopo di disingaggiarsi, sussiste il rischio di vanificare quanto fatto fin ora".
Che futuro ha un paese come il Kosovo, con un’economia fragile?
"Le Istituzioni locali hanno fatto notevoli passi avanti e la classe politica sta spostando finalmente l’attenzione sulle problematiche reali della popolazione ma un percorso ancora lungo e minato dalla corruzione, dalle esigue risorse disponibili e da una incapacità di attrarre investimenti. Serve una classe dirigente tale da guidare il Paese verso obiettivi ambiziosi alla stessa stregua degli altri Paesi europei. Le organizzazioni internazionali e l’UE sono ancora molto d’aiuto per il conseguimento di tali obiettivi e per il loro monitoraggio".
Il pericolo del terrorismo islamico è quello che adesso spaventa di più in area balcanica, dove il radicalismo ha trovato un suo incubatore. La vostra azione è mirata anche alla prevenzione di questo problema?
"Non esiste un Paese che possa ritenersi immune da tale fenomeno. Le Istituzioni in Kosovo sono state in grado in poco tempo di mettere in piedi una serie di leggi per contrastare il fenomeno dei foreign fighters attuando anche dei programmi di deradicalizzazione per chi rientrava legalmente in Kosovo. È la Regione con la più elevata percentuale di foreign fighters rispetto al numero di abitanti. Il rischio della radicalizzazione è anche esso connesso, ancora una volta, alla situazione economica. Nella considerazione che il reddito pro capite si aggira tra i 350 ed i 450 Euro, con un costo della vita “europea”, le “ONG” religiose hanno terreno fertile, a fronte di sussidi viene chiesto di frequentare la moschea il venerdì, di imporre il velo a mogli e figlie e di la frequentare la scuola coranica. In tali condizioni è probabile che qualcuno possa radicalizzarsi".
"KFOR è costantemente vigile, collabora strettamente con le Organizzazioni di sicurezza locali ed Internazionali presenti nella regione e, contribuisce a garantire la necessaria sicurezza e il controllo del fenomeno. Durante il mio mandato ho voluto degli incontri periodici con tali organizzazioni di sicurezza al fine di mantenere la condivisione di informazioni relative ai “foreign fighters” ed avere sempre un quadro chiaro sul suo stato corrente. Il rischio terrorismo non va mai sottovalutato".
Quanto viene monitorata e temuta per la sicurezza del Kosovo la rotta balcanica, tra le rotte dell’immigrazione clandestina?
La NATO non è coinvolta nel contrasto del fenomeno dell’immigrazione in quanto la gestione del flusso migratorio spetta alle Istituzioni locali a meno che ciò non costituisca un problema di sicurezza. La missione della KFOR, infatti, come autorizzato dal Consiglio Nord Atlantico e in aderenza alla risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, è quella di contribuire a mantenere un ambiente sicuro e stabile e a garantire la libertà di movimento".
Quale è stato il momento più importante della sua missione? Quale la maggiore difficoltà?
"Le attività sono così frenetiche, gli impegni si susseguono in maniera così repentina che non saprei indicare temporalmente un momento più importante della missione. Abbiamo avuto diversi momenti di tensione in 12 mesi di mandato, ma non si sono mai tradotti in problemi alla sicurezza sul terreno. La tensione è talvolta cresciuta, ma la tutela della popolazione non è mai stata intaccata. Devo ricordare fra i momenti critici l’assassinio di Oliver Ivanovic. L’ex Segretario di Stato del Ministero serbo per il Kosovo e Metohija (arrestato nel gennaio 2014 e condannato a nove anni di carcere il nel 2016 per crimini di guerra da parte di giudici di EULEX Kosovo; poi sottoposto a nuovo processo, ndr.) è stato ucciso nel gennaio 2018 durante una sparatoria a Mitrovica nord. Aggiungo l’arresto del politico Marko Djiuric nel marzo dello stesso anno e la mancata costituzione dell’Associazione delle Municipalità a maggioranza serba. Abbiamo gestito la visita del presidente serbo Aleksandar Vucic nel nord del Kosovo, e quella successiva del presidente kosovaro Hashim Thaci. Infine i tentativi di aprire forzatamente il ponte di Mitrovica e la contestazione a Thaci".
"Le difficoltà sono derivate più che altro dalla retorica spesso proposta dai leader politici, tanto da parte serba quanto da parte kosovara, che sovente ha rallentato quel processo di normalizzazione che invece la popolazione chiede a gran voce e per il quale dovrebbero essere profusi tutti gli sforzi. Al di là di tutto, resta la soddisfazione di aver portato a termine il mandato ricevuto - pur consapevole del fatto che ancora tanto resta da fare in questa terra - e porterò a casa una esperienza umana e professionale significativa, che con me hanno condiviso le donne e gli uomini di 29 Paesi che hanno servito nella KFOR".