Per quello che ha tutta l’aria di essere un paradosso, la creazione di un nuovo confine tra l’Unione Europea e la Gran Bretagna dipende tutta dall’eliminazione o meno della frontiera tra il Regno Unito e l’Irlanda. Sei mesi all’alba della Brexit e nulla è ancora certo, salvo il giorno e l’ora. Nelle prossime ore i 28 paesi europei affronteranno la questione in un vertice a Bruxelles, ma i tempi non sembrano maturi per l’intesa e probabilmente finirà tutto in un rinvio.
Londra non è mai stata così insicura del proprio futuro dai tempi della Battaglia d’Inghilterra, ma nell’ora più buia la guidava Winston Churchill. Oggi a Downing Street siede Theresa May. Bruxelles sa che a rimetterci di più saranno i britannici, ma quando ci si divide fa male a tutti e cerca di limitare i danni, oltre a mantenere i principi. Ecco perché tenere il confine aperto tra Ulster e Repubblica Irlandese è così importante.
Un Venerdì Santo di molto tempo fa
Fu il simbolo del successo politico ed esistenziale dell’Europa, vent’anni fa: Regno Unito e Irlanda trovavano un accordo di pace sulla questione nordirlandese e il confine tra i due paesi di fatto veniva cancellato, sotto gli auspici di Bruxelles. Era il Good Friday del 1998. Nessuno avrebbe pensato che la questione sarebbe stata riaperta, tantomeno da un referendum che all’epoca non si sarebbe nemmeno immaginato. Oggi invece tutto dipende da quei 360 chilometri di barriera tracciata sulla carta.
Nessuno ama l’Europa, ma tutti amano la sua unione doganale
Se tornerà ad essere un confine effettivo, applicabile quindi anche allo scambio di merci e servizi con relativi diritti doganali, Dublino si troverà di fatto isolata dal resto dell’Unione, ma soprattutto Londra perderebbe molta di quella libertà di circolazione con il mercato unico europeo cui tanto tiene ancora adesso. Le parti avevano trovato un accordo di massima che prevedeva l’istituzione di una “rete protettiva”, ma la vaghezza del termine non ha certo aiutato al raggiungimento di una soluzione certa.
A questo punto Bruxelles ha chiesto che tutta l’Irlanda del Nord restasse – a differenza del resto del Regno Unito – di fatto nell’unione doganale e nel mercato unico europeo. Questo però avrebbe significato, agli occhi del resto dei britannici, una separazione di fatto. May ha rilanciato con un piano, immediatamente rispedito al mittente, che prevedeva semmai l’estensione a tutta la Gran Bretagna dei privilegi dell’unione doganale.
Gli unionisti puntano i piedi
A questo punto bisogna tener presente un ulteriore tassello del puzzle: Theresa May non ha la maggioranza alla Camera dei Comuni. Lo scorso anno, sicura della vittoria, andò alle elezioni anticipate e rischò concretamente di perderle. Oggi governa solo ed esclusivamente grazie ai quattro deputati del Partito Unionista Nordirlandese, il Dup. E questo hanno fatto sapere che ogni tipo di accordo che allontani anche solo nominalmente Belfast da Londra vedrà il ritiro dell’appoggio al governo già a partire dall’imminente dibattito sulla legge di bilancio.
Come uscirne?
Il nodo gordiano a questo punto diventa doppio: economico e politico. L’Ue ha dato la disponibilità ad un’intesa su una dichiarazione d’intenti politica, priva di valore legale, che spazi dalla politica estera comune a quella di difesa e alla cooperazione in tema di sicurezza. Una decina di pagine o anche più: lunga a sufficienza perché ognuno vi trovi ciò che preferisce, e l’altro non se ne senta impegnato. Ma sarebbe solo come spostare nel tempo la soluzione del problema.
Per quanto riguarda l’aspetto economico, di recente ha ripreso forza l’idea di un accordo del tipo di quello che l’Ue ha con la Norvegia, o il Canada, adeguatamente rafforzato. Qualcuno teorizzò questo tipo di sbocco fin da subito, senza essere ascoltato. Per questo motivo, probabilmente, ci si trova di fronte ad un’occasione sprecata. Adesso infatti potrebbe essere troppo tardi. Gli accordi commerciali sono molto tecnici e basati sui dettagli: per concluderli ci vogliono gli anni, non i sei mesi di qui alla Brexit. Lo spettro delle file all’ingresso delle farmacie e degli stand vuoti nei supermercati, agitato da May per far capire a Boris Johnson e compagni quanto sarebbe duro uscire dall’Ue senza un accordo, è oggi un pochino più vicino di tre mesi fa. A meno che si arrivi ad un’intesa a sorpresa come quella del Venerdì Santo del 1998. Ma la Brexit avrà luogo alla mezzanotte del 29 marzo, e quest’anno il Good Friday cade il 19 aprile. Troppo tardi.
Tutti guardano a Belfast, intanto Edimburgo fa i suoi calcoli
Mentre tutti si preoccupano dei confini tra Belfast e Dublino, una terza frontiera rischia di riemergere ungo il Vallo di Adriano. La settimana scorsa il Partito Nazionale Scozzese (Snp) ha celebrato a Glasgow il suo congresso annuale, dedicato in gran parte alla questione. Due anni fa il 62 percento degli scozzesi votò contro la Brexit. Nei giorni scorso il principale partito del loro parlamento ha ribadito tre punti: 1) occorre temere un secondo referendum di “ripensamento” sulla questione; 2) se il governo di Londra ignorerà la richiesta di andare ad una Soft Brexit, una Brexit concordata con Bruxelles, a Westminster verrà portaro “il massimo della distruzione”; 3) ogni privilegio eventualmente garantito all’Irlanda del Nord dovrà essere automaticamente applicato anche alla Scozia.
Messe insieme, queste tre richieste si riducono ad una: noi con la Brexit non c’entriamo, quindi vogliamo restare per lo meno nell’unione doganale. Altrimenti inizierà un lungo e lento, ma costante processo di separazione da Londra. E allora addio Regno Unito.