La New York Review of Books è probabilmente la rivista letteraria più autorevole degli Stati Uniti, quindi certamente tra le più autorevoli del mondo. Dal 1963, anno della sua fondazione, ha avuto solo tre direttori, l’ultimo, Ian Buruma, scrittore e giornalista anglo-olandese, è durato poco, appena 16 mesi, e pochi giorni fa ha dovuto dare le dimissioni. La storia è interessante e restituisce perfettamente la potenza della piazza di Internet; ma partiamo dall’inizio.
Poche settimane fa, con il benestare della redazione, Buruma decide di programmare la pubblicazione del saggio Reflections from a Hashtag, scritto dall’ex conduttore radiofonico canadese Jian Ghomeshi, che nel 2014 venne accusato di violenza sessuale da una donna perdendo così il suo posto di lavoro alla Canadian Broadcasting Corporation. In seguito al licenziamento, nel 2015, altre 23 donne lo accusarono di aver avuto comportamenti inappropriati e violenti (parlando di pugni, morsi e soffocamenti) durante atti sessuali consenzienti. Nel 2016 scattò il processo dal quale però venne assolto. Nel frattempo la sua carriera è stata distrutta e la sua reputazione definitivamente compromessa.
Il suo saggio (che uscirà soltanto l’11 ottobre ma che è già disponibile online) racconta esattamente questo: la storia di un uomo giudicato innocente da un tribunale, pur in presenza di comportamenti riprovevoli per sua stessa ammissione, ma condannato senza appello dai social per accuse di molestie sessuali rivelatesi insussistenti sotto il profilo giudiziario.
Siamo due giorni fa. Il riferimento al movimento #metoo è immediato e Buruma, così come la New York Review of Books, vengono attaccati violentemente. La vicenda si aggrava quando Buruma decide di rilasciare un’intervista ad un’altra rivista, Slate, che gli chiede come mai abbia deciso di mandare in stampa quel saggio. Lui risponde così:
“Non ho alcun dubbio sul fatto che il movimento #MeToo sia un correttivo necessario per quanto riguarda il comportamento maschile sui luoghi di lavoro che spesso ostacola la possibilità delle donne di lavorare in un ambiente paritario. Ma, come spesso accade quando si hanno buone intenzioni, alle volte possono esserci conseguenze indesiderabili. Penso che, in un clima generale di denuncia, le persone spesso esprimono opinioni che possono essere inquietanti. Non direi di avere una visione inequivocabile di questa faccenda”.
Apriti cielo, i social si scatenano stavolta contro di lui, in un attimo un intellettuale posto sullo scranno più sinistroide d’America, che lo stesso Tome Wolfe nel ’70 definì “il principale organo teorico del Radical Chic”, si trasforma in un mostro che difende apertamente la violenza sulle donne. Ian Buruma non è stato licenziato ma è stato messo nelle condizioni di dover lasciare il posto quando l’attacco social ha spinto i principali inserzionisti della rivista a minacciare un passo indietro.
Il tono di fondo della grandissima maggioranza di commenti negativi hanno riguardato proprio la scelta del direttore di dare voce a quella posizione. Inaccettabile per molti, troppi forse, la decisione di offrire la ribalta ad un uomo che si è sì formalmente pentito di quello che ha fatto, si è sì scusato con le donne maltrattate, ma non ha mai dato la vera sensazione di essersi redento davvero, piuttosto di essersi mosso per recuperare frettolosamente una dignità sociale. Che valore letterario ha, allora, un testo di un autore così, si è chiesto tra i tanti Vox? Perché dare spazio allo scritto di Jian Ghomeshi?
"Gli editori universitari, le cui pubblicità rendono parzialmente possibile la pubblicazione della New York Review of Books, stavano minacciando un boicottaggio – ha detto lo stesso Buruma al Guardian - Hanno paura delle reazioni nei campus, dove questo è un argomento scottante. Per questo motivo, mi sento costretto a dimettermi. In realtà – conclude - questa è una sconfitta sia per i social media che per il giornalismo universitario". Il direttore ha detto che l’articolo voleva affrontare il tema della riabilitazione di chi aveva tenuto comportamenti gravi e scorretti, pur non infrangendo la legge.
Ha scritto Giuliano Ferrara sul Foglio: "Buruma ha fatto quanto noi facciamo da quasi un quarto di secolo, immaginando che sia il succo della libertà di espressione: ha dato voce, senza condividerla, a un'esperienza divenuta marginale e a un'opinione in dissenso dal mainstream. Nel suo fortino tradizionale il pluralismo, da sempre insidiato dalle costrizioni del politicamente corretto, è morto e sepolto. È una storia triste e allarmante, ma alla fine è solo una storia di intolleranza come ce ne sono tante di questi tempi. Da un lato i safe spaces nelle università americane (e nelle altre tribune di cultura) danno la caccia, con esiti spesso di esilarante goffaggine, al free speech; dall'altro si affermano, in controtendenza, le molestie alle libertà civili annidate nelle insorgenze internazionali delle nuove destre nazionalpopuliste e dei profeti della democrazia illiberale".