Quando Theresa May è partita per il vertice informale dei capi di Stato Ue tenutosi mercoledì e giovedì a Salisburgo, era reduce da uno scontro senza precedenti con l'ala dura del partito conservatore, che fa capo all'ex ministro degli Esteri Boris Johnson. Il nodo è sempre quello del confine tra Irlanda e Irlanda del Nord. La fronda interna, fautrice della 'Hard Brexit', vuole una frontiera vera e propria, con tanto di controlli doganali, e un accordo commerciale sul modello del 'Ceta' siglato da Ue e Canada. Il compromesso proposto da May, il cosiddetto 'Chequers plan' che portò alle dimissioni di Johnson e di ben due ministri per la Brexit (David Davis e Steve Baker, durato appena un mese), prevede invece un periodo di transizione di 20 mesi per trattare nuove regole durante il quale le merci continuino a circolare liberamente tra Dublino e Belfast. May aveva bisogno di un appoggio almeno di principio da parte degli altri governi europei, in modo da tornare a Londra rafforzata. E invece non è andata affatto così.
L'imboscata di Macron
A Salisburgo, scrive il Guardian, la premier è stata "umiliata da un'imboscata", che avrebbe avuto come principale architetto Emmanuel Macron. Il presidente francese ha sicuramente bisogno di rilanciare la sua immagine, ultimamente assai appannata, di campione dell'europeismo. Le prossime elezioni europee sembrano sempre più destinate a risolversi con un accordo tra popolari e nazionalisti, sul modello austriaco, che lo taglierebbe fuori dai giochi. Ma non deve essere stato difficile convincere i partner, a partire dalla cancelliera tedesca Angela Merkel. Il 'Chequers plan', per come è stato concepito da May, mantiene di fatto il Regno Unito all'interno del mercato comune. È evidente come ciò non possa essere digerito né da Bruxelles né da chi, all'interno dei Tories, pensa ora di approfittare della conferenza del partito, al via la settimana prossima, per fare la festa al primo ministro. Per mettere all'ordine del giorno l'elezione di un nuovo leader, basta la firma di 48 deputati. La pattuglia ribelle guidata da Johnson e Jacob Rees-Mogg avrebbe più o meno questi numeri. Va detto che è altrettanto ovvio come May non possa tollerare la proposta europea di una sorta di "regime speciale" che mantenga Belfast all'interno del mercato comune. In questo modo l'Irlanda del Nord si ritroverebbe sì con una nuova frontiera, ma con il resto del Regno Unito.
Lo spettro del 'no deal'
Il presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, ha messo in agenda un vertice straordinario sulla Brexit per il 17 e il 18 novembre. Ma per raggiungere un accordo entro quella data, Merkel pretende "progressi sostanziali" già dalla riunione del Consiglio già prevista per il 18 ottobre. In sostanza, May ha meno di un mese di tempo per formulare una nuova proposta che possa avere il via libera sia della Camera dei Comuni (dove il governo si regge su una maggioranza di due voti) che dei Ventisette (e qua è superfluo sottolineare come basti il veto dell'Irlanda per far saltare tutto). Un compito decisamente arduo che rende sempre più concreta l'ipotesi di un 'no deal', ovvero di un'uscita senza alcun accordo di Londra dalla Ue, con conseguenze imprevedibili. Uno scenario al quale il presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, assicura di essere preparato.
Una vittoria per Boris Johnson?
Di fatto, l'imboscata pare essersi risolta in un gigantesco favore della Ue a Boris Johnson, che adesso avrà tutti gli argomenti di questo mondo per asserire che il 'Chequers plan' era da buttare e che, con il tempo che stringe (la data fissata per la Brexit è il 29 marzo), "nessun accordo è meglio di un cattivo accordo". L'intransigenza dell'Europa ha però una sua logica. In primo luogo, è assai probabile che una Brexit disordinata possa avere pesanti conseguenze economiche, un monito a chi in futuro possa avere idee simili. In seconda battuta, non è un mistero che in Europa, come ha dichiarato di recente il premier maltese Joseph Muscat, in molti preferirebbero che Londra ci ripensi, faccia marcia indietro e resti nella Ue. È una questione che va al di là dei "pentiti" della Brexit o i "Remainers" che manifestano in piazza domandando un secondo referendum. Il primo ministro scozzese, Nicola Sturgeon, sta invocando un rinvio della scadenza del 29 marzo se il vertice di novembre si chiuderà con un altro fallimento. In alternativa, c'è sempre sul tavolo la possibilità di una seconda consultazione per chiedere l'indipendenza.