“Pochi minuti prima dello scatto di cui stiamo parlando, una camionetta blindata della polizia venezuelana investì dei manifestanti e gli passò sopra più volte. Io mi trovavo all’interno del gruppo che ha iniziato a correre per non essere investito, sono riuscito a salvarmi solo perché alcune persone che mi precedevano sono cadute sotto le ruote del blindato e lo hanno rallentato. Triste da dire, triste da ricordare. Potevo essere uno di loro. Uno dei momenti di quella giornata che mi è rimasto più impresso. Avrei voluto fotografarlo per lasciare al mondo questa forte testimonianza, ma come dicevo prima, l’unica soluzione che avevo in quel momento era correre. Rimarrà indelebile nei miei ricordi”.
Ronaldo Schemidt è il fotogiornalista venezuelano (lavora per Agence France-Presse) che ha vinto il World Press Photo 2018 nella categoria “World Press Photo of the Year” e il primo premio nella categoria “Spot News”. È sua la foto ormai celeberrima che ritrae un ragazzo di 28 anni, José Víctor Salazar Balza mentre prende fuoco durante i violenti scontri con la polizia antisommossa di Caracas, nel corso di una protesta contro il presidente Nicolás Maduro, il 3 maggio 2017.
Ronaldo è nato nel 1971 a Caracas, capitale del Venezuela. Fino al 2004 ha lavorato come fotografo freelance per Afp per poi diventare fotografo ufficiale dell’agenzia in Messico, nel 2006. Si occupa principalmente di conflitti sociali, politica e violenza derivante dal traffico di droga.
Sappiamo che il ragazzo in fiamme, José Víctor Salazar Balza, è sopravvissuto riportando delle ustioni di primo e secondo grado. Lei è riuscito a parlare con lui dopo quel 3 maggio?
“Subito dopo il fatto, ricordo che c’era una grande confusione, tra i tanti manifestanti l’ho perso di vista. Dopo qualche giorno sono dovuto tornare in Messico e non sono riuscito a rintracciarlo perché era uno dei tantissimi manifestanti feriti in quella giornata. Dopo qualche settimana sono venuto a sapere che nessuna agenzia di stampa era riuscita a mettersi in contatto con lui, perché oltre a temere repressioni da parte del governo è rimasto molto traumatizzato sia fisicamente che psicologicamente da quell’accaduto. Quindi no, non sono mai riuscito a contattarlo personalmente né io, né il mio collega di Caracas, Juan Barreto, che quel giorno è stato il primo a fotografare l’esplosione della motocicletta che ha incendiato il ragazzo. Queste informazioni siamo riusciti ad averle grazie alla sorella, l’unica persona più vicina a lui che siamo riusciti a contattare e con la quale siamo ancora in contatto".
Il ragazzo avrà saputo che la foto di cui è protagonista sia diventata così famosa in tutto il mondo?
"Non lo so, non so qual è la sua posizione al riguardo, l’unica cosa che so è che non vuole esporsi a livello mediatico. La persona più importante attraverso la quale abbiamo potuto sapere qualcosa è la sorella, che oltre a condividere il fatto che il nostro lavoro sia servito per documentare ciò che stava succedendo nel paese, ha anche dichiarato che grazie alla notorietà della foto, il fratello ha ricevuto le cure in uno dei migliori ospedali di Caracas. In un’intervista che la sorella ha lasciato per un giornale, ho letto che Josè non vuole neanche vedere la foto per non rivivere i momenti e le sensazioni di quella terribile giornata".
Se avesse a disposizione tre aggettivi per descrivere quella foto quali useresti e perché?
"Sicuramente a un primo impatto rimarrei molto impressionato e quindi di conseguenza potrei associare alla foto l’aggettivo impressionante, ma devo ammettere che vedere una foto come questa susciterebbe in me soprattutto delle domande, che è successo lì? Perché? Com’è possibile che si è arrivati a questo?"
A distanza di un anno il Venezuela si trova ancora in una situazione di massimo allarme, i beni di prima necessità scarseggiano, l’inflazione è altissima e il voto appena espresso dal popolo ha riconfermato come presidente Nicolàs Maduro, lo stesso che aveva alimentato le proteste di quel 3 maggio, lasciando molte perplessità sul futuro del paese. Lei pensa che la sua testimonianza fotografica grazie all’interesse che ha generato su scala mondiale potrà creare o aumentare le iniziative di sostegno verso il tuo paese da parte di organizzazioni internazionali private e non?
"Partendo dal presupposto che uno degli obiettivi primari del fotogiornalismo è quello di generare dei cambi, sarebbe meraviglioso se le nostre testimonianze fotografiche potessero creare subito dei miglioramenti in zone del mondo dove la gente sta soffrendo guerre, fame e carestie; ma purtroppo la realtà è più complicata e a volte dopo un nostro servizio fotogiornalistico passa molto tempo prima che il sistema di aiuti internazionali possa attivarsi; detto questo, la mia speranza più grande è che l’interesse che ha generato la mia foto possa spingere la gente e la Comunità Internazionale ad interessarsi molto di più su quello che sta succedendo in Venezuela, dove è in corso una delle crisi economiche più gravi della sua storia. Per quanto riguarda le organizzazioni internazionali, le uniche chiamate che ho ricevuto sono state da parte di Organizzazioni non governative e aziende europee, che volevano aiutare il ragazzo in cure mediche, ma nessuna che ipotizzasse iniziative di sostegno per il Venezuela".
Tutti oggi parlano della sua foto del ragazzo in fiamme. Può raccontarci tre foto della sua carriera alle quali è più legato o che rappresentano al meglio quello che per lei è il significato di essere un fotogiornalista?
"Le tre foto di cui sto per parlare sono legate a tre eventi che nella mia carriera mi hanno segnato molto a livello emotivo e che tutt’oggi porto dentro. La prima risale al giugno 2009, sono stato chiamato per un servizio nella città di Hermosillo, al confine con gli Stati Uniti, dove era andato a fuoco un asilo nido con all’interno molti bambini. Appena ho saputo che più di 40 erano morti carbonizzati, sono rimasto sconvolto. Sul posto oltre alla polizia e tutte le unità di soccorso, c’erano molti genitori in lacrime. Ho molte foto di quella giornata, ma penso che questa sia quella che possa rappresentare al meglio il dolore di quei giorni. Dover fotografare la sepoltura di più di 40 bambini e tutto il dolore negli sguardi di quelle persone che son lì per dargli l’ultimo saluto, sono sensazioni che ti segnano per molto tempo o forse per tutta la vita".
"La seconda è stata scattata qualche mese prima rispetto a quella che ha vinto il premio. Sono andato in Venezuela per testimoniare la mancanza di cibo e la situazione gravissima che stava vivendo il popolo venezuelano. Per molti giorni ho girato casa per casa raccogliendo le testimonianze della gente e fotografando le cucine delle loro case. Il vuoto di quei frigoriferi ancora lo porto dentro".
"La terza è molto recente e si riferisce al terremoto che a settembre del 2017 ha sconvolto il Messico. Io mi trovavo lì. Subito dopo la prima scossa sono uscito dall’ufficio per dirigermi nelle zone più colpite dal sisma. La situazione per le strade era drammatica, gente che correva senza una direzione, bambini che piangevano, persone alla disperata ricerca di soccorsi. Dodici giorni dopo, un’altra forte scossa ha fatto tremare il paese, io mi trovavo per strada e ho vissuto quella tragedia in prima persona, ho scattato molte foto di quella giornata, sono foto piene di tristezza, ma oltre a quello, raccontano anche un forte senso di cooperazione cittadina. La foto che ho scelto ritrae proprio alcuni vigili del fuoco che insieme a semplici volontari, mettono in salvo un uomo dopo aver scavato per ore tra le macerie".
La maggior parte dei suoi ultimi lavori racconta storie di conflitti sociali, violenza, traffico di droga e situazioni difficili. Penso che a volte un fotogiornalista, come succede spesso agli attori, rischia di rimanere intrappolato in un ruolo o in alcune scene di un film. La differenza sostanziale è che il fotogiornalista non deve uscire da un film ma da una realtà per rientrare nella propria, lei come riesci a tornare alla sua?
"La prima cosa è sicuramente cercare di separare questi momenti tragici, violenti e pericolosi dalla mia vita personale. Anche se questo lavoro mi appassiona e mi da molte soddisfazioni, devo essere molto chiaro e cosciente con me stesso; nella mia vita ho amici, famiglia, compagna, e non posso portare a casa tutti questi momenti negativi, perché come dicevi tu rischierei di rimanerci intrappolato. Quando torno da un lavoro difficile, ci metto sempre qualche giorno per riconnettermi con la mia vita personale e cominciare a fare le cose di tutti i giorni, come andare al cinema, bere una birra con gli amici o andare a cena con la mia compagna; ma una cosa è certa: i ricordi sempre ritornano. A volte a distanza di tempo, basta rivedere delle foto o un video e in un attimo le immagini di quei momenti sono di nuovo lì, pronte a stamparsi prepotentemente nella mente".
Aggiunge Ronaldo: "Lo scorso anno sono stato due mesi in Venezuela, prima un mese, poi sono tornato in Messico, e dopo sono tornato un altro mese a Caracas. Nel periodo in cui sono tornato in Messico ho fatto molta difficoltà a ritrovare la mia serenità, non riuscivo a dormire ed ero avvolto da un’impaziente necessità di rimanere costantemente informato sulla situazione venezuelana, quindi in conclusione non è sempre facile riuscire a riprendere una vita normale dopo tanta violenza e per così tanto tempo, ma ci provo e cerco di fare sempre al meglio il mio lavoro, nella speranza che le mie fotografie e tutte quelle di chi fa il mio lavoro, possano continuare a testimoniare la nostra società e il nostro tempo".