Donald Trump ha fatto saltare lo storico summit con Kim Jong-un in programma per il 12 giugno a Singapore perché “era finito in una trappola”. Ne è convinto Lorenzo Mariani, ricercatore del programma Asia dello Iai, che aveva anticipato in un’intervista all’Agi come la sfiducia del consigliere per la sicurezza nazionale del presidente americano, John Bolton, nei confronti di Kim avrebbe potuto inficiare le reali intenzioni americane rispetto al possibile summit con Trump e rovinare il programma diplomatico del presidente sudcoreano Moon Jaen-in.
Così è stato. Nelle ultime ore Trump è tornato a rilanciare l'ipotesi di un incontro con il leader nordcoreano dopo le aperture arrivate nella notte da Pyongyang che si è detta ancora "disponibile" al dialogo. La prima crepa tra Stati Uniti e Corea del Nord si è aperta proprio dopo le dichiarazioni di Bolton, che aveva indicato la Libia come modello da seguire per il disarmo nord-coreano, facendo infuriare Pyongyang che nella morte del rais, Moammar Gheddafi, vedeva la giustificazione per il mantenimento del programma nucleare. Un concetto ripetuto nelle ultime ore dal vice-presidente usa, Mike Pence, a cui Pyongyang ha risposto definendolo “pupazzo politico”, scatenando gli eventi che hanno fatto precipitare la situazione.
“Trump aveva accettato l’invito a sorpresa di Kim in una mossa diplomatica inconsueta che giocava a favore della Corea del Nord”, elabora Mariani. L’accelerazione del ripristino dei colloqui era stato il frutto della “backward policy” (diplomazia all’inverso): “Prima si convoca il summit tra i leader, e solo in un secondo momento si lavora a costruirne le fondamenta”. In sostanza, non c’era stato il tempo per i negoziati intermedi. Una situazione che, secondo Mariani, andava a favore del leader nord-coreano giacché restringeva i tempi della preparazione di un possibile negoziato.
Gli Usa rischiavano dunque di arrivare al summit di Singapore “impreparati” e temendo di “fare ampie concessioni al Nord”. Non solo. “La mancanza di strategia da parte americana", aggiunge il ricercatore dello Iai, "rischiava di portare a un accordo molto vago sulla denuclearizzazione”, un passaggio rimasto vago nella dichiarazione di Panmunjon del 27 aprile scorso.
Alla base del vertice, come anticipato dagli analisti interpellati da Agi, c’era un equivoco: Trump voleva una denuclearizzazione immediata, o in fasi ravvicinate, concedendo aiuti economici e garanzie per la sopravvivenza del regime nord-coreano; mentre il Nord non aveva nessuna intenzione di rinunciare allo status di potenza nucleare, puntava a un processo ridotto e scaglionato nel tempo e chiedeva il disimpegno militare degli Stati Uniti nella penisola coreana.
Altro elemento che nei giorni scorsi aveva spinto Pyongyang a mettere per primo in discussione il vertice di Singapore: le esercitazioni militari americane-sudcoreane. “Trump, trovatosi in questa dinamica, se ne è tirato fuori. Ma lo ha fatto nel più goffo dei modi”, dice Mariani. E ha rischiato per di più di mettere in pericolo i giornalisti americani che nelle stesse ore stavano assistendo alla distruzione del sito di Punggye-ri.
Non è escluso che l'inquilino della Casa Bianca stia attuando una strategia per raggiungere un accordo più vantaggioso.
A uscire rafforzato dall'annullamento del vertice è indubbiamente, Kim Jong-un. “Il summit, così come era impostato, avvantaggiava il regime nord-coreano, il cui obiettivo cardine è la sua sopravvivenza”, spiega Mariani. Non solo. “Trump, che voleva il Nobel, puntava a una vittoria internazionale in un momento in cui è sempre più solo, sia all’interno che all’esterno della Nazione”.
Il punto è che il dialogo con Kim rappresentava un vantaggio per l'inquilino della Casa Bianca, di certo non per gli Stati Uniti. “Il leader nord-coreano ha sfruttato il lato debole di Trump: gli ha proposto un vertice bilaterale facendo leva sulla sua politica narcisistica, il 'deal-maker' che risolve i problemi da solo e che porta avanti una visione economica delle relazioni internazionali”. Kim aveva fatto centro.
E così il presidente americano ha fatto un passo indietro. “L’unico che sta gioendo è Bolton, da sempre contrario al summit, che, dal suo punto di vista, avrebbe avuto l’unico vantaggio di smascherare le reali intenzioni di Kim Jong-un: portare avanti la strategia del rischio controllato, alternando picchi di tensioni ad aperture diplomatiche, con l’obiettivo di l’estorcere aiuti alla comunità internazionale”.
Trump e Kim hanno lasciato aperta la porta al dialogo, ma l’opzione militare ora torna sul tavolo. In prospettiva vedremo una nuova escalation o il ritorno dai negoziati? “Kim ha rafforzato la sua posizione – spiega Mariani - esce dall’annullamento del summit come il leader che era disposto a sedersi al tavolo delle trattative, che era andato a parlare con Moon Jae-in e con Xi Jinping. Ha guadagnato un forte capitale politico. Non vedo cosa potrebbe ottenere se tornasse all’escalation missilistica che aveva caratterizzato la Corea del Nord nel 2017”.
Mentre è improbabile che si arrivi alla rottura delle relazioni tra Stati Uniti e Corea del Sud (Moon, appena rientrato da Washington, è stato letteralmente colto di sorpresa dalla lettera di Trump pubblicata dalla Casa Bianca), un ritorno ai negoziati, almeno in tempi brevi, è al momento difficile. “L’uscita dall’accordo nucleare iraniano, le dichiarazioni sul modello libico: sono fattori che non giocano a favore di una ripresa dei negoziati”, conclude Mariani. “Sarà difficile convincere Pyongyang che una volta smantellato il programma nucleare non farà la fine di Gheddafi”.