Cuba dirà addio alla dinastia Castro con ventiquattro ore di anticipo. La seduta del Parlamento cubano, l’occasione per l’elezione del successore di Raul, è stata spostata da giovedì a mercoledì. L’isola comunista, 59 anni dopo la Rivoluzione Cubana, finirà con ogni probabilità nelle mani di Miguel Diaz-Canel Bermudez. L’uomo, 58 anni, oggi è vicepresidente. Ma non era nemmeno nato quando Fidel prese il potere. Il passo indietro di Raul Castro, annunciato nel 2013, “segnerà la fine di un’epoca”, scrive il Washington Post. Eppure, negli Stati Uniti, sono in pochi a credere che la dinastia Castro sia destinata a finire semplicemente con il cambio alla guida del Paese.
“Nessun ribaltone a Cuba”
“Non è un segno di transizione – spiega The Hill -, quanto piuttosto parte di un copione ben scritto da Raul Castro e da chi lo circonda”. Per il giornale statunitense “sarà la continuazione della stessa condizione in cui governa l’unico partito comunista dell’isola”. Non solo, “il governo cubano sarà spinto a parlare della successione come di una transizione storica, come parte del funzionamento di una democrazia sana, ma non sarà così”.
Dello stesso avviso è Bloomberg, secondo cui “non c’è da attendersi un cambio radicale” né tanto meno un cambio nei rapporti con gli Stati Uniti. “Non aspettatevi una tregua nella faida che dura da sessant’anni”, chiosa il quotidiano economico secondo cui da quando Donald Trump siede alla Casa Bianca la tensione ha vissuto una escalation. Una situazione che ha fatto dei due Paesi qualcosa come “frenemies”, un mix tra friends e enemies - amici e nemici -. Cioè politicamente avversari, con stilettate continue, ma in grado di cooperare in situazioni di emergenza, come dopo l’uragano di Haiti o dopo un incendio che aveva messo in pericolo la base statunitense di Guantanamo, e anche nello stroncare congiuntamente attività illegali come “traffici di droga e di esseri umani”, ricorda Bloomberg.
“Castro rimarrà segretario del Partito”
Niente cambi radicali ma piuttosto una transizione senza scossoni, dunque. Cuba affronterà il cambiamento senza stravolgere l’assetto che dura oramai dai tempi della Guerra Fredda. “Raul Castro rimarrà segretario del partito – spiega The Hill -, che di fatto detta tutte le decisioni politiche chiave. Castro è anche a capo delle Forze Armate Rivoluzionarie (Far) – gli eserciti terrestri, navali, aerei e di difesa aerea – e probabilmente continuerà a esercitare una influenza senza pari” anche in virtù di un presunto controllo della Gaesa (Grupo de Administracion Empresarial S.A.), un conglomerato di attività che gestisce fino al 70% dell’economia dell’isola. Una situazione che Il Foglio aveva descritto così: “Se andate a Cuba da turisti, rassegnatevi: in un modo o nell'altro finanziate l'esercito”.
I sogni di gloria economici
I viaggi, appunto, sono una della cartine tornasole dell’economia cubana. Una delle principali novità introdotte negli ultimi anni, in virtù anche dell’apertura impressa dall’ex presidente statunitense Barack Obama ai rapporti con l’isola comunista, era stata la possibilità per i turisti americani di visitare Cuba anche senza accompagnatori. Prima della riforma dell’ex inquilino della Casa Bianca nel 2014, “la maggior parte degli americani senza legami familiari con Cuba potevano andarci soltanto grazie a costosi tour guidati. La situazione, che per alcuni anni era migliorata, è nuovamente precipitata nel novembre scorso quando Trump ha introdotto nuove limitazioni. Niente soldi alle attività legati ai soldati cubani, detto in parole povere. Come per esempio agli 80 hotel sull’isola in cui è vietatissimo soggiornare per presunti affari con le Far.
Ma secondo il Washington Post non sono soltanto i vicini di casa statunitensi a rallentare l’economia cubana. Lo stesso governo comunista, allarmato per il repentino aumento degli impiegati nel settore privato, “ha imposto una frenata alla concessione di nuove licenze per le attività commerciali”. Dal 2008, l’anno dell’addio di Fidel, al 2017, il numero di imprenditori o di lavoratori che non rientrano nella sfera dello Stato è quasi quadruplicato, “da 150 mila a 580 mila”. Ciò nonostante, come segnalato nel rapporto stilato dalla Brookings Institution, per diversi beni, dallo zucchero al caffè, dal tabacco al pesce, “i livelli di produzione prima della rivoluzione del 1959 erano abbondantemente superiori a quelli odierni”. Segno di una economia che non ha ancora trovato uno sviluppo o, per dirla con il Wp, di una “disincantata stagnazione”.