Per cinquanta lunghi anni è stata uno dei segreti della vita di Martin Luther King: una ragazza. Bianca. Che lo ispirò nelle ultime ore di vita. Per cinque decenni storici professionisti e dilettanti si sono interrogati sulla sua esistenza, ne hanno cercato le tracce, non le hanno trovate, ed in molti alla fine hanno gettato la spugna dicendo che no, quella giovane donna in realtà non esisteva. Che lui se l’era inventata, per un artificio retorico che ogni grande oratore e politico è autorizzato a concedersi.
In fondo per una causa come la sua si sarebbe trattato di un peccato veniale, se non addirittura di una sorta di titolo di merito: aver voluto rammentare, magari con un po’ di sforzo e di fantasia, che anche tante donne giovani e – oggi si direbbe con orribile neologismo – caucasiche erano vicine alla lotta non violenta per l’uguaglianza dei neri d’America.
Martin Luther King ne parlò nel suo ultimo discorso pubblico, al Mason Temple di Menphis, alla vigilia del suo assassinio, in una serata che le cronache ricordano da tregenda: tuoni fulmini e pioggia contro le vetrate. Ricordò, quella sera, in un discorso che tempo poche ore tutti avrebbero riconosciuto come profetico, di essere stato sfiorato dalla Morte, dieci anni prima. Stava firmando le copie di un suo libro, al termine di una conferenza, quando una donna (questa è una storia molto al femminile) chiamata Izola Curry l’aveva colpito al petto con un tagliacarte, sfiorandogli l’aorta. Un soffio e la Morte, donna e signora di tutti gli uomini, lo avrebbe ghermito.
Anzi, più che un soffio fu uno starnuto. Perché i medici, con il loro fare pratico, dissero proprio questo: “gli sarebbe bastato starnutire una volta e sarebbe deceduto”. Ed allo starnuto che mai non venne il Dottor King dedicò la sua ultima anafora. “Se avessi starnutito”, ripeté una, due, tre, quattro cinque addirittura sei volte mentre la pioggia batteva sui vetri. Se avessi starnutito “non sarei stato a Selma, alla grande marcia”; se avessi starnutito “non avrei mai visto i neri dell’Alabama alzarsi e tenere dritta la schiena”. Soprattutto, “non avrei mai avuto la possibilità di dire a Washington di un sogno che avevo avuto”. E allora nessuno avrebbe mai sentito l’anafora più bella di tutta la storia d’America.
Concluse, King, quella serata di tuoni e fulmini con uno dei più famosi frutti della sua facondia: “Come ogni altro uomo, anche io vorrei avere una vita lunga e felice. Ma la cosa non mi preoccupa. Quello che voglio è fare la volontà di Dio, e Lui mi ha concesso di salire sulla cima della montagna e di lì ho potuto vedere. Ho potuto vedere la Terra Promessa, e se non potrò entrarvi insieme a voi, voglio che voi sappiate che noi, il popolo, nella Terra Promessa saremo accolti. E allora sono felice, stasera, e non temo più nulla, né nessuno. Perché sono stato in cima alla montagna e i miei occhi hanno visto la gloria di Dio che viene”.
L’ispirazione di tanta potenza oratoria – lo aveva detto lui stesso qualche attimo prima – gli era venuta da una ragazza. Bianca. Glielo aveva scritto lei stessa, di essere bianca: “Dottor King, per quel che vale, sappia che io sono bianca”. Era una delle mille e ottocento lettere che gli erano state recapitate sul letto di ospedale, nel 1958, quando tratteneva il respiro cercando di non starnutire. E le aveva detto, quella ragazza, con l’ingenuità di una giovane della provincia americana: “Dottor King, sono contenta che lei non abbia starnutito”. Proprio così. I sentimenti più profondi sono spesso i più semplici.
Sì, ma chi era questa giovane donna? Lo stesso King, che in quel momento andava a braccio e citava a memoria, non era stato molto preciso, e la lettera per anni non è stata ritrovata. Ì ricercatori hanno compulsato libri di referenze, scartabellato archivi, si sono consumati gli occhi sugli immensi carteggi di King conservati al Boston College o alla autorevolissima Standford University. Fino a dubitare, per l’appunto, che non fosse mai esistita. Ma l’ha rinvenuta, come un ago in un pagliaio, il Wall Street Journal: era nei file del Morehouse College, la scuola dove lui aveva studiato da ragazzo. La ragazza, creduta per così tanto tempo una donna dello schermo, in realtà si chiamava Jean Kepler, ed all’epoca dei fatti aveva 37 anni. Quello che Keplero aveva scritto a Martin Lutero era esattamente ciò che questi aveva raccontato: “Sono proprio contenta che lei non abbia starnutito”. Ed è saltata fuori anche una sua foto: non era bellissima, ma era la tipica giovane donna della sua epoca, pronta ad uscire da una pubblicità di lavatrici in cui le mamme con un filo di perle al collo ed il maglioncino di cachemire danno il bacio ai bambini, che stanno per andare a scuola. L’emblema del ceto medio americano, che poi è quello che, negli anni ’60, sposò la causa dell’uguaglianza dei diritti civili, e così facendo cambiò la storia del proprio Paese.
Una storia che Jean Kepler visse con tutte le sue forze, ma queste l’abbandonarono. La figlia, Kendel, racconta che continuò tra mille difficoltà a partecipare alla lotta per l’uguaglianza dei neri d’America dalla sua casa nello Stato di New York, fino alla fine. Fino a quando, cioè, non le diagnosticarono una forma tremenda di diabete, che la condusse all’amputazione degli arti. Nel 1971 vinse la disperazione: lei pose fine ai suoi giorni.
Senza nemmeno sapere di essere lei la donna cui Martin Luther King dedicò gli ultimi pensieri, prima di essere fermato sulla strada che lo conduceva in cima alla montagna.