Un finanziamento da 3.500 dollari (circa 2.910 euro) per abbandonare il Paese, rimpatriando o chiedendo asilo altrove, o la prigione. Questa era l'alternativa che si trovavano di fronte le migliaia di immigrati africani, in larga parte sudanesi ed eritrei, che hanno scelto di riparare in Israele, uno Stato che, sottolinea la Bbc, da quando ha firmato sessant'anni fa la Convenzione Onu sui Rifugiati ha accolto meno dell'1% delle richieste di asilo. Ed è con l'inizio di aprile che dovrebbe scattare l'arresto per chi non ha accettato l'allontanamento volontario. Almeno per chi resterà fuori dal novero delle 16.250 persone che, sulla base di un accordo tra il governo israeliano e l'Alto Commissario delle Nazioni Unite, verranno ridistribuite in alcune nazioni occidentali, come Canada, Germania e Italia. Il nostro Paese è stato citato esplicitamente dal primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, in conferenza stampa ma la Farnesina ha smentito la presenza di un accordo. Saremmo quindi stati citati a titolo di esempio, parrebbe.
Il capo del governo di Tel Aviv ha spiegato che si tratta di "un accordo unico tra l'Alto commissario delle Nazioni Unite e lo Stato di Israele, che prende 16.250 persone, le porta in Paesi sviluppati come il Canada, o la Germania e l'Italia. Questo è l'impegno che l'Alto Commissario delle Nazioni Unite si è preso, di organizzare e persino finanziare il piano".
L'afflusso di "lavoratori illegali che si infiltrano dall'Africa", aveva dichiarato nel 2010 l'anche allora premier Netanyahu, "è una minaccia concreta al carattere giudaico e democratico del Paese". E "infiltrati" è il termine con cui il governo dello Stato ebraico definisce le persone che cercano riparo in Israele attraverso la frontiera con l'Egitto, tramite la quale i flussi si sono notevolmente ridotti negli ultimi anni grazie alla costruzione di una barriera al confine, completata nel 2013.
"Non sono rifugiati, sono infiltrati"
Gli africani presenti illegalmente nel Paese - secondo il ministero dell'Interno locale - sono 38.000, 27.500 dei quali provenienti dall'Eritrea e altri 7.900 in arrivo dal Sudan. Persone che provengono da note aree di crisi e che, quindi, godrebbero in larga parte del diritto alla protezione internazionale. Ma non per Netanyahu, secondo il quale sono tutti migranti economici. "Non sono rifugiati, sono infiltrati che cercano lavoro", aveva affermato il primo ministro lo scorso 31 agosto visitando il sud di Tel Aviv e l'area intorno alla stazione della seconda città del Paese, nella quale vive il 60% dei richiedenti asilo africani presenti in Israele.
Tre giorni prima la Corte Suprema israeliana aveva stabilito che gli immigrati che chiedevano asilo in Israele potevano essere deportati in Uganda e Ruanda ma che, in attesa dell'espulsione, non potevano essere detenuti per più di sessanta giorni. Non abbastanza per Netanyahu. "Restituiremo Tel Aviv ai cittadini di Israele, questi non sono rifugiati ma infiltrati che cercano lavoro", disse il premier, incontrando i residenti, "se necessario, emenderemo la legge o cambieremo gli accordi con i Paesi africani, o entrambe le cose". Tre mesi più tardi, il ministro dell'Interno, Aryeh Deri, avrebbe annunciato il giro di vite: gli africani se ne dovranno andare con le buone, o finiranno in galera. Un annuncio al quale l'Unhcr, l'agenzia Onu per i rifugiati, rispose esprimendo "seria preoccupazione" e criticando "la segretezza e la mancanza di trasparenza" delle procedure di rimpatrio, che hanno reso "molto difficile per l'agenzia il monitoraggio sistematico della situazione".
Israele non ha però ceduto alle pressioni internazionali. Lo scorso 12 dicembre la Knesset, il parlamento israeliano, ha approvato a larga maggioranza la chiusura del campo profughi di Holot, i cui residenti potranno ora continuare a restare nel Paese solo dietro le sbarre. Pochissime speranze per chi ci viveva: dal 2009 Israele ha concesso asilo ad appena otto eritrei e due sudanesi, garantendo poi la protezione umanitaria ad altri duecento, tutti profughi del Darfur. Dei 38.000 cosiddetti "infiltrati" sono invece in carcere in 1.420. Anche in presenza dell'accordo di oggi, potranno avere presto molta compagnia. Numeri alla mano, il piano dell'Onu riguarda infatti meno della metà di loro. Chi resterà fuori dovrà fare una scelta. Israele aveva promesso che le espulsioni avverranno su "base volontaria" e non riguarderanno bambini, anziani e vittime di schiavitù o tratta. Ma è difficile parlare di "base volontaria" se l'alternativa è il carcere.