Nell’agendina che Shukri Ghanem, l’ex ministro del Petrolio libico trovato annegato a Vienna il 29 aprile 2012, aveva con sé prima di morire erano scrupolosamente annotati tre pagamenti ordinati da Muammar Gheddafi a favore della campagna elettorale 2007 di Nicolas Sarkozy. Uno, da 3 milioni di euro, effettuato da Saif al-Islam, il secondo figlio del Colonnello, che a Ghanem era molto vicino. Di un altro, da 2 milioni, si occupò l’allora capo dell’intelligence di Tripoli, Abdullah Senussi, attualmente detenuto in patria. Del terzo versamento, 1,5 milioni di euro, si prese carico quello che sarà probabilmente il testimone chiave dell’inchiesta aperta contro l’ex presidente francese dal procuratore Serge Tournaire. Stiamo parlando del nigerino Bashir Saleh, che di Gheddafi fu il vero braccio destro.
Capo di stato maggiore, segretario particolare del defunto dittatore e –soprattutto – gestore dal 2006 al 2009 del fondo sovrano da 40 miliardi di dollari dal quale sarebbero provenuti i finanziamenti illeciti che hanno portato al fermo di Sarkozy, Saleh è il depositario di buona parte dei segreti che potrebbero inguaiare l’ex inquilino dell’Eliseo. E c’è mancato poco perché, come Ghanem, non fosse in grado di raccontarli. Lo scorso 23 febbraio Saleh è infatti sopravvissuto a un misterioso agguato a Johannesburg, dove ora risiede, che - allo stesso modo della morte di Ghanem – ha più di un lato oscuro da chiarire, non rendendo troppo peregrina l’ipotesi che, anche in questo caso, l’intento potesse essere stato tappare per sempre la bocca a un testimone pericoloso. Forse il più pericoloso di tutti.
Da Tripoli a Parigi
Dopo la caduta di Tripoli, nell’agosto del 2011, Saleh, che aveva cercato di convincere Gheddafi a scegliere la via dell’esilio, riesce a riparare in Tunisia. I servizi segreti transalpini organizzano la sua fuga a Parigi, dove ottiene un permesso di soggiorno valido per un anno. Ma l’aria della capitale francese si fa presto pesante per l’ex “banchiere di Gheddafi”. Le nuove autorità libiche lo accusano di essere scappato con parte della cassa, ovvero di aver portato con sé svariati miliardi di dollari sottratti al fondo sovrano. Miliardi che il Consiglio Nazionale di Transizione vuole recuperare. L’Interpol si mette sulle sue tracce. E il 28 aprile 2012 Mediapart, la stessa testata che rivelerà i segreti contenuti nell’agendina di Ghanem, pubblica un documento in arabo che proverebbe lo stanziamento di 50 milioni di euro a favore della campagna elettorale di Sarkozy.
Si tratterebbe delle minute di un incontro, avvenuto a Tripoli nella primavera del 2007, al quale avrebbero partecipato Saleh, Senussi, l’allora ministro degli Esteri libico Moussa Koussa, il faccendiere franco-libanese Ziad Takieddine (oggi tra i principali accusatori di Sarkozy) e Brice Hortefeux, che all’epoca era ministro del governo Fillon ma era soprattutto uno degli uomini di fiducia di Sarkozy, del quale era stato capo di gabinetto nonché testimone di matrimonio e padrino di battesimo del secondogenito Jean Sarkozy. Saleh smentisce tutto. L’allora primo ministro, Francois Fillon, nega che sullo scomodo ospite penda un mandato di cattura internazionale. Nel frattempo il socialista Francois Hollande aveva vinto il primo turno delle presidenziali, che lo incoroneranno al secondo turno il 6 maggio. Prevedendo forse che i suoi mentori non sarebbero rimasti al loro posto a lungo, il 3 maggio 2012 Saleh toglie il disturbo. A occuparsi della sua fuga, secondo un’inchiesta di Les Inrockuptibles, è il capo del controspionaggio francese, Bernard Squarcini, che era stato il suo protettore e manteneva i contatti con lui tramite il faccendiere franco-algerino Alexandre Djourhi, arrestato a Londra lo scorso 9 gennaio nell’ambito dell’indagine di Tournaire (che ora dovrebbe chiederne l’estradizione).
La fuga in Sudafrica e la protezione di Zuma
Saleh scappa con la famiglia prima in Niger, poi in Senegal e infine in Sudafrica, dove vanta contatti di alto livello. Di livello tale che, quando nel 2013 il governo libico emette contro di lui un mandato di cattura internazionale per appropriazione indebita, il presidente sudafricano Jacob Zuma sceglie di non collaborare, nonostante la pressione dell’opposizione perché consegni Saleh, che in Sudafrica inizia a fare affari d’oro, dimostrando una ricchezza di mezzi decisamente sospetta (si parla di almeno un miliardo investito in cinque anni). Interrogato in materia durante un’audizione parlamentare, Zuma ammette candidamente di “non essere in grado di monitorare o controllare” i movimenti all’interno del Paese di Saleh, che nel 2012 era stato addirittura avvistato al ricevimento per il centenario dell’Anc, il partito di Zuma.
Nel giugno 2017 l’Onu segnala al governo di Pretoria un versamento di 800 milioni di dollari da un conto sudafricano a una banca keniota. Il denaro sarebbe stato utilizzato per l’acquisto di armi da parte di una non meglio specificata delegazione libica. Ad aver effettuato il pagamento, accusa l’Onu, è lo stesso Saleh, che dal suo esilio stava così fornendo sostegno ad alcune milizie schierate nel complicatissimo Risiko libico. Zuma, ancora una volta, fa finta di niente. L’ex braccio destro del Colonnello si sente ormai così sicuro di sé che inizia a rilasciare interviste ai media europei nelle quali afferma di voler contribuire alla riconciliazione nazionale del Paese nordafricano. Il 29 settembre 2017 – due giorni dopo le rivelazioni di Mediapart sull’agendina di Ghanem – Saleh, oggi settantunenne, arriva ad ammettere a chiare lettere, in un’intervista a Le Monde, che Gheddafi aveva finanziato la campagna elettorale di Sarkozy.
Chi ha sparato a Saleh? E perché?
Si arriva così al 23 febbraio 2018. Saleh atterra all’aeroporto di Johannesburg, la città dove risiede, dopo un viaggio d’affari in Zimbabwe. Durante una sosta, due persone sfondano con un martello il vetro della sua auto, strattonano a forza Saleh fuori dal veicolo, gli sparano sei colpi di pistola al torace e scappano via col suo computer portatile. Non verranno mai presi. Saleh sopravvive e i suoi legali affermano che “non c’è alcuna prova che l’attacco abbia avuto moventi politici”. Per quanto il Sudafrica sia un Paese difficile dove simili episodi sono frequenti, c’è più di un motivo per dubitare che sia stata una semplice rapina, a partire dalle dichiarazioni dei familiari secondo i quali l’uomo “si era sentito particolarmente minacciato nelle ultime settimane”. Del resto, l’arresto di Djourhi, meno di due mesi prima, aveva già reso molto chiaro come il cerchio si stesse stringendo intorno a Sarkozy.
Perché a Saleh è stato rubato solo il laptop? Perché è stato colpito sei volte al torace, mentre il suo autista è stato ferito solo di striscio? Gli aggressori intendevano quindi ucciderlo? E perché le autorità e i media hanno fornito versioni così contrastanti della vicenda (all’inizio alcune testate avevano sostenuto che l’attacco fosse avvenuto nell’abitazione di Saleh, altre parlano di una gang di cinque aggressori, non di due)? Sono domande alle quali Saleh stesso potrà rispondere, una volta che sarà uscito dal reparto di terapia intensiva dell’ospedale dove è ricoverato, sorvegliato da guardie armate 24 ore su 24. Un dispiegamento di forze tale da lasciar intendere che nemmeno le forze dell’ordine sudafricane sono così convinte che sia stata solo una rapina finita male.