Le donne saudite potranno finalmente guidare: il divieto che le teneva, uniche escluse al mondo, lontane dal volante di un auto è stato revocato da un decreto del re Salman alla fine di settembre. Il mondo ha esultato, così come le attiviste che per decenni nel Regno wahabita si sono battute per questa ‘rivoluzione’, pagandola a caro prezzo. Ma gli altri milioni di donne saudite?
La giornalista Katherine Zoepf sul New Yorker ha delineato una situazione di sostanziale incomunicabilità e disinteresse reciproco su entrambi i ‘fronti’: ricordando le interviste a decine di studentesse universitarie durante il suo primo viaggio nel Paese nel 2007, ha sottolineato come la campagna della femminista Wajeha al-Huwaider per ottenere il diritto di guidare fosse pressoché sconosciuta. “Benché queste giovani donne fossero tutte brillanti e ben informate, non erano a conoscenza di Huwaider né erano interessate a guidare e sembravano perplesse sul perché io immaginavo che avrebbero dovuto esserlo”.
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Le campagne mediatiche indirizzate più all'estero che alle connazionali
Non molto diversa la situazione dall’altra parte della ‘barricata’. Le stesse attiviste saudite che portavano avanti con impegno e coraggio diverse battaglie per i diritti delle donne – non solo la revoca del divieto di guidare ma anche la battaglia contro il sistema tutorale maschile che di fatto imprigiona le donne saudite nella loro quotidianità, dalla nascita alla morte – non erano particolarmente interessate a comunicare con le loro connazionali.
Le loro campagne mediatiche si rivolgevano in primis al pubblico all’estero. “Ho speso 5 anni a raccontare l’attivismo in Arabia Saudita prima di capire finalmente che, per Huwaider e altri attivisti per la giustizia sociale e la democrazia nel Regno, i loro concittadini non sono mai stati il destinatario primario. Loro stavano parlando al mondo esterno”, “non volevano tanto galvanizzare l’entusiasmo interno ma attrarre le simpatie degli stranieri”, ha scritto la giornalista sul New Yorker.
I motivi sono molteplici, e vanno dal controllo ferreo delle autorità sui media locali alla forte tendenza alla riservatezza che si accompagna a una debole tradizione verso i diritti individuali, fino ad arrivare alla consapevolezza che, per un monarca assoluto, conta infinitamente meno l’opinione pubblica nazionale rispetto a un rappresentante eletto. Che il proclama fosse indirizzato soprattutto al mondo esterno lo prova anche la tempistica: la revoca del divieto per le donne di guidare, infatti, è stata annunciata simultaneamente a Riad e a Washington. E la conferenza stampa più sensazionale è stata quella tenuta dall’ambasciatore saudita nella capitale americana, il principe Khalid bin Salman, nel pomeriggio, in tempo per i notiziari, mentre in patria le autorità saudite hanno dato scarna notizia in tarda serata.
Re Salman voleva impressionare gli interlocutori stranieri
La ragione, secondo la Zoepf, sta nelle motivazioni di fondo che hanno spinto re Salman alla storica decisione: impressionare non tanto i concittadini, quanto soprattutto gli interlocutori stranieri. Conoscendo infatti la nomea di ‘falco’ del nuovo re, salito al potere nel gennaio 2015, molti analisti, pur sorprendendosi che avesse preso lui l’iniziativa, hanno pensato non che fosse esempio di un nuovo impegno a favore dell’uguaglianza di genere quanto un tentativo di sviare l’attenzione internazionale dai recenti arresti di dissidenti sauditi e dalla richiesta del Consiglio Onu per i Diritti Umani di indagare sui crimini di guerra sauditi in Yemen.
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Ma, nonostante questi fattori possano aver giocato un ruolo nella decisione, a pesare è stato soprattutto qualcos’altro, e cioè che la casa reale si è resa conto che il Regno non può più ignorare l’opinione mondiale rispetto al trattamento delle donne saudite. Con la recente crisi del prezzo del petrolio, Riad ha cominciato a rendersi conto dei costi reali che comporta sprecare le competenze di metà della popolazione. “Le donne saudite hanno lauree migliori, e lavorano di più, hanno maggiormente da dimostrare. I sauditi hanno finalmente capito che l’economia non si diversificherà o riformerà senza inglobare le donne nella forza lavoro”, ha sottolineato Bernard Haykel, professore alla Princeton University.
Ma anche motivazioni economiche: usare le competenze delle donne ora serve
Da qui, la conclusione che dare alle donne il diritto di guidare fosse la concessione meno dolorosa da fare. Il rischio quindi, come hanno sottolineato alcuni sauditi, è che resti un gesto poco più che simbolico. Il sistema tutorale maschile in vigore nella monarchia wahabita, infatti, continua a bloccare le donne, che hanno bisogno del permesso del tutore maschile – padre, marito, fratello, addirittura in alcuni casi figlio – per svolgere tutta una serie di attività, dall’acquistare un auto, richiedere il passaporto, sposarsi, ma anche uscire di prigione, lavorare, accedere ai servizi sanitari o studiare all'estero.
Con sorpresa, però, la giornalista del New Yorker ha registrato sollievo da parte di diverse donne saudite, contente che l’'operazione' abbia funzionato e che la monarchia abbia ristabilito il controllo sulla narrazione e l’immagine del Paese. Come ha sintetizzato su Facebook Dara Sahab, avvocato di Gedda: l’umore generale è “buone notizie per il resto del mondo. Ora potete lasciarci soli”.