Uno scudo anti-predatorio che difenda gli interessi strategici dell’Europa. L’attesissima proposta di un nuovo meccanismo per serrare il controllo degli investimenti da parte dei Paesi extra-Ue, è stata annunciata dal presidente della Commissione Jean-Claude Juncker nel suo discorso sullo Stato dell'Unione pronunciato ieri davanti al Parlamento europeo, a Strasburgo: "L'Europa è aperta al commercio ma deve esserci reciprocità”, ha detto Juncker che ha annunciato iniziative per "rafforzare il programma commerciale europeo" con lo scopo di proteggere i settori strategici dagli investimenti stranieri, respingendo le acquisizioni che minano la sicurezza degli Stati Membri. “Non siamo partigiani naif del libero scambio", ha sottolineato Juncker. Serve "un nuovo quadro dell'UE sullo screening degli investimenti": se un'impresa straniera vuole acquisire "un porto, infrastrutture strategiche o una società nel settore tecnologico della difesa" deve essere "trasparente" e sottoposta a "un esame approfondito". L'Ue deve proteggere la nostra sicurezza collettiva. La Cina non è stata citata direttamente ma il pensiero corre laggiù.
Il piano sarà presentato oggi
Secondo quanto apprende AGI, il piano è stato approvato formalmente ieri e verrà presentato oggi. Nei giorni scorsi erano circolate indiscrezioni secondo cui la Commissione europea fosse pronta ad autorizzare un documento di venti pagine – anticipato da Repubblica - in risposta alla lettera con cui a febbraio Italia, Francia e Germania hanno chiesto all’Unione europea di intervenire sulla proposta di una norma anti-predatoria. Plauso oggi dai tre governi che accolgono "con favore" le proposte della Commissione Ue "come un passo importante per poter assicurare condizioni di concorrenza giusta e leale in Europa", si legge in una nota congiunta al termine del discorso di Juncker. La proposta “rappresenta una pietra miliare nella politica commerciale dell'Ue”, ha detto il ministro italiano dello Sviluppo Economico Carlo Calenda.
La Cina nel mirino?
Perché nel mirino ci sarebbe soprattutto la Cina? Per due motivi. “Innanzitutto per i volumi”, ha spiegato all’AGI Renzo Cavalieri, professore di Diritto dell'Asia Orientale presso l'Università Ca' Foscari Venezia. Gli investimenti cinesi nel 2016 sono passati da 20 a 35 miliardi, in crescita del 77% (nello stesso periodo gliinvestimenti europei in Cina non hanno superato gli 8 miliardi di euro). L’Italia negli ultimi anni ha giocato un ruolo di primo piano nello shopping cinese: tra il 2000 e il 2016, si è posizionata al terzo posto tra le destinazioni degli investitori cinesi in Europa - a quota 12,8 miliardi di euro - dietro la Gran Bretagna (a 23,6 miliardi) e la Germania (18,8 miliardi). “Secondo, per la modalità di penetrazione dei mercati. La Cina quando investe si muove come un sistema unitario in cui le imprese, il mondo finanziario, quello politico e i consulenti operano in un unico senso, con gli stessi intenti”, ha spiegato Cavalieri. “Questo approccio crea un problema di asimmetria rispetto al nostro modello di mercato tradizionale fondato invece sull’ indipendenza dei medesimi attori economici” In altre parole: la Cina gioca con le regole del mercato ma ha un diverso Dna.
Cosa ha convinto l'Europa a correre ai ripari
Se in molti casi si tratta di operazioni che portano beneficio all’azienda acquistata o partecipata, in altri – soprattutto quando l’affare coinvolge il trasferimento di tecnologia e know-how – la voracità cinese suscita perplessità, e fa suonare i campanelli d’allarme del Vecchio continente. È successo, ad esempio, quando ChemChina ha presentato nel 2016 l’offerta per la svizzera Syngenta: l’anti-trust europeo, dopo uno stallo iniziale, ha infine concesso il via libera. E’ accaduto in Ungheria dove la Commissione europea ha bloccato il progetto di linea ferroviaria ultraveloce che doveva unire Belgrado e Budapest. Ma a iniettare veleno è stato soprattutto l’acquisto del 35% del costruttore tedesco di robot Kuka da parte di Midea, un accordo mal digerito da Angela Merkel che aveva provato a impedire la vendita ai cinesi. Ma il problema, come dicono gli analisti, sembra soprattutto di natura politica. "Monitorare la natura degli investimenti stranieri verso l'Europa rappresenta un diritto e dovere dell'Unione Europea e degli Stati Membri per mantenere alto il valore di interi settori e segmenti d'industria del continente”, ha commentato all’AGI Davide Cucino, presidente emerito della Camera di Commercio Europea in Cina. “Non va confuso con il protezionismo – sottolinea - l'Europa rimane l'area nel pianeta in cui è più facile investire e partecipare a gare pubbliche”.
“La mia impressione è che la Commissione europea voglia soprattutto uniformare e legittimare i sistemi di Golden Power (le regole per bloccare gli investimenti adottata da 12 Paesi tra cui Italia, Francia, Germania, ndr) già esistenti, attendiamo di leggere il piano”, ha detto Renzo Cavalieri. “L’Europa ha con la Cina soprattutto un problema politico causato dalla mancanza di reciprocità e l’adozione di una misura di monitoraggio è assolutamente legittima”, ha commentato Mariangela Pira, giornalista di ClassCNBC e Milano Finanza, coautrice insieme a Sabrina Carreras di “Fozza Cina” (Baldini&Castoldi, 2017).
Reciprocità cercasi disperatamente
Ma la reciprocità tra Europa e Cina invocata da Juncker “non c’è e mai potrà esserci”. A esserne convinto è Michele Geraci, docente di economia alla Nottingham University Business School China e direttore del Global Policy Institute China. “Lo ha detto a Bruxelles nel giugno scorso lo stesso premier Li Keqianq chiarendo che l’Europa non può chiedere condizioni di reciprocità a un Paese in via di sviluppo come la Cina”. In sostanza – secondo Geraci - nei rapporti sino-europei c’è un blocco etico: Pechino chiede un trattamento diverso perché vive condizioni diverse. La parola cinese maodun (矛盾), conflitto, è composto dal carattere “mao” che significa “freccia” e “dun” che invece significa “scudo”: due caratteri dall’accezione contrastante che messi insieme esprimono una contraddizione. “La Cina chiede all’Europa rispetto in qualità di economia emergente e promette all’Europa rispetto in qualità di Paese sviluppato”. Il maodun – appunto. “Per la Cina reciprocità vuole dire avere rispetto del livello di sviluppo di ciascun Paese e non comporta l’adozione degli stessi dazi o di parità di accesso a operazioni di acquisizione. L’Europa, se pretende reciprocità, rischia di sbattere contro uno scudo durissimo”.
Il rischio di una chiusura del Vecchio Continente
“La necessità di un piano più rigido per il controllo degli investimenti esteri non sarebbe nata se il mercato cinese fosse aperto almeno quanto il nostro”, ha detto Cavalieri. “Sul ritardo del Bilateral Investment Treaty, ad esempio, pesa la difficoltà di realizzare l’ingresso della Cina in un sistema di regole trasparenti, come vorrebbe l’Europa”. Ciò spiega la perplessità europea di concedere lo status di economia di mercato al gigante asiatico. “Uno scudo rischia di inasprire le tensioni”, spiega Cavalieri. “I cinesi non prenderanno bene l’iniziativa europea, proprio come hanno mal digerito il negoziato per il sistema anti-dumping. La Cina fatica a capire che l’Europa si muove sulla spinta dall’opinione pubblica, che negli anni è cambiata: dieci fa la Cina era percepita come una minaccia, cinque anni fa l’arrivo degli investimenti cinesi ha iniziato a ricevere un’accoglienza positiva, e oggi si sta tornando su posizioni protezionistiche. Spero che la decisione europea crei un fermento che sia da stimolo per i cinesi, i quali altrimenti rischiano un’Europa che si chiude”.
Geraci sottolinea poi una difficoltà tecnica: “È impossibile che 28 Paesi decidano in modo unanime di intraprendere qualsiasi iniziativa relativa al blocco delle acquisizioni cinesi in Europa. Fermare lo shopping su settori strategici non porta a un equilibrio di nash (un punto che nessun giocatore ha interesse a essere l'unico a cambiare, ndr): quello che è strategico per la Francia non lo è per la Grecia” . Non solo: i Paesi europei che fanno affari con la Cina sono spinti da interessi divergenti. A ciò si aggiunge che “uno scudo contro le scalate ostili non sarebbe legale in assenza di una giurisdizione Ue sulle acquisizioni”.
Alla ricerca di un equilibrio che garantisca crescita a tutti
Come evitare di svendere i gioielli dell’industria europea? “Proporre alla Cina una contropartita, creare meccanismi che consentano la crescita di entrambi”, spiega Pira. La proposta di Geraci è di consentire l’ingresso di investitori cinesi nelle aziende europee per una quota massima del 30%, con la possibilità di acquisire una partecipazione del 10% in più per ogni milione di prodotti venduti nel mercato cinese. “Ciò garantirebbe che l’investimento cinese porti a un incremento della produzione e non sia un mero scambio di azionariato dal vecchio al nuovo azionista senza immissione di nuovo capitale in azienda”.
La decisione di adottare uno scudo ha a che vedere con il ritorno del nazionalismo. “La globalizzazione che fino a qualche anno fa veniva vista come chance, oggi viene vista come malattia”, ha spiegato Cavalieri. Il mutato atteggiamento psicologico è avvenuto in modo disomogeneo. “Da qualche tempo l’Europa si sta dividendo in due blocchi – ha spiegato Cavalieri -: da un lato, la Francia di Macron, l’Italia e la Germania, favorevoli a misure restrittive; dall’altro, i Paesi nordici (tra cui il Regno Unito del post-Brexit) e l’Europa orientale, abbastanza contrari a un inasprimento delle regole di accesso al mercato europeo”. Sta di fatto che qualche anno fa era prevalso un ragionamento economico che riteneva utile l’ingresso di capitali cinesi per lo sviluppo delle aziende e delle infrastrutture, mentre “oggi si è tornati su posizioni protezionistiche, che sono a mio parere legittime nella misura in cui la presenza di player che giocano con regole diverse su un mercato uniforme rischia di avere seri contraccolpi sugli equilibri economici”. Oggi l’atmosfera sta cambiando di nuovo – non solo nei confronti della Cina. “C’è una implosione, a partire dal tema dell’immigrazione. Su questi temi i partiti giocano per il loro posizionamento, e i governi devono dare delle risposte. La Cina dovrebbe non sottovalutare questi aspetti ma ragionare in termini più inclusivi se vuole un accesso al mercato europeo; il rischio è che prevalgano partiti favorevoli all’adozione di misure molto più dure di quelle della Golden Power”.
Sventare un ritorno al protezionismo
Il piano di Bruxelles è dunque il sintomo di questo mutato atteggiamento, ma anche e soprattutto il tentativo di aggiustare la relazione con la Cina anche per evitare che altre posizioni più rigide finiscano per prevalere. Quali strumenti? Secondo Cavalieri, non è saggio predefinire i settori industriali nei quali limitare gli investimenti. Gli fa eco Pira: “L’interesse degli investitori sui singoli settori potrebbe cambiare nel tempo, la norma deve essere flessibile”. Non solo: all’interno di ogni comparto ciò che conta è la singola operazione. “A livello sia europeo sia nazionale va fatto un lavoro enorme per tracciare un confine tra gli investimenti predatori, che acquisiscono risorse europee per portarle via depauperando la struttura industriale del nostro Paese, da quelle operazioni in cui invece l’affare si conclude con un guadagno per il partner italiano - acquisito o partecipato - in termini di apertura dei mercati”, spiega Cavalieri. C’è poi il tema del controllo: “Sono vari i parametri per valutare se il business plan è coerente e vantaggioso oppure se di fatto rappresenti una forma di spoliazione del patrimonio europeo”, ha concluso Cavalieri.