La Cina è tra i pochi paesi al fianco del presidente venezuelano Nicolas Maduro. Pechino chiede il “dialogo pacifico in un quadro di legalità” per la risoluzione dei problemi interni al Venezuela.
Nella visione cinese, il voto per l’elezione della Costituente del 30 luglio scorso “si è svolto in maniera generalmente tranquilla”. Pechino ha preso nota delle “reazioni di tutte le parti coinvolte”, ma il commento del Ministero degli Esteri contrasta con la condanna della comunità internazionale: “Speriamo sinceramente che tutte le parti in Venezuela possano risolvere la questione con il dialogo pacifico all’interno di una cornice legale e proteggere la stabilità del Paese e lo sviluppo socio-economico”. “La Cina - conclude la nota - ritiene che il governo e il popolo del Venezuela abbiano la capacità di gestire appropriatamente i loro affari interni. Un Venezuela in sviluppo stabile è in accordo con gli interessi di tutti”. Il giudizio sul voto per l’elezione della nuova Costituente voluta da Maduro e boicottata dalle opposizioni, riflette l’atteggiamento di Pechino che da sempre proclama il principio di non interferenza negli affari interni di altri Paesi. Quel principio grazie al quale la Cina fa affari con tutti.
Pechino secondo partner commerciale di Caracas
Il giudizio sul voto in Venezuela riflette soprattutto i rapporti con il Paese sudamericano retto da Nicolas Maduro, che è ai primi posti tra gli esportatori di greggio verso la Cina. Pechino è il secondo partner commerciale di Caracas dopo gli Stati Uniti: l’interscambio totale ha raggiunto quota 15,7 miliardi nel 2014. Di recente la Cina ha annunciato nuovi investimenti per 2,7 miliardi di dollari siglando accordi per 22 progetti in ambito finanziario, culturale e commerciale. Questi investimenti mirano ad aprire nuovi mercati di sbocco per le merci cinesi, esportare la sovraccapacità in alcuni settori produttori e assicurare il rifornimento di materie prime.
Di più. Il futuro di Maduro potrebbe dipendere da Pechino. La Cina è il maggiore creditore del Venezuela e l’unico Paese che potrebbe salvare Caracas dal rischio default. La catastrofe economica che rischia di portare il Paese sull’orlo del fallimento e – peggio - di una guerra civile, non è nell’interesse di Pechino, mossa dal timore che il perdurare della crisi possa intaccare gli investimenti cinesi nel Paese.
Dal 2007 al 2014, il Venezuela ha ottenuto dalla Cina prestiti per 63 miliardi di dollari. Il 53% dei fondi destinati all’America Latina sono stati assorbiti da Caracas. Come garanzia creditizia, la Cina ha chiesto di essere ripagata in petrolio. In quegli anni il prezzo del petrolio si aggirava intorno ai 100 dollari al barile. L’accordo era di beneficio per entrambi i Paesi. Era l’epoca dello “chavismo”. Cina e Russia videro in Hugo Chavez (alla guida del governo dal 1999 al 2013) un alleato ideologico e strinsero accordi commerciali. Mosca continua ad assorbire metà dell’interscambio commerciale venezuelano. Chavez aveva scommesso sul rafforzamento dell’industria petrolifera, nazionalizzando migliaia di aziende e tagliando la produzione di altri beni, di fatto costringendo il Paese a importare dall’estero qualsiasi altro bene per soddisfare il fabbisogno della popolazione, come spiega Claudia Astarita su "Panorama". Una politica avventata destinata in pochi anni a creare una spirale di crisi senza fine. Il sistema, infatti, funzionò fino al 2014; poi arrivò la crisi petrolifera e il meccanismo si inceppò. I prezzi del petrolio sono crollati fino a 30 dollari al barile nel 2016.
Se dal 2011 al 2013 – anno di morte di Chavez a cui subentra Nicolas Maduro – il 95% delle entrate nazionale derivava dalla compravendita del greggio, dal 2015 la percentuale è scesa al di sotto del 50. Le misure di Maduro per reagire a questa crisi hanno generato la catastrofe in cui versa oggi il Paese. Il presidente ha ridotto drasticamente le importazioni di generi alimentari e medicinali e per iniettare liquidità nel sistema finanziario, ha stampato nuova moneta generando una fortissima inflazione, oggi al 720%; e che secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale (FMI) rischia di aumentare vertiginosamente al 2000%. Una situazione che sembra senza via di uscita. La soluzione sarebbe che i prezzi del greggio risalgano – ma è difficile prevederlo. Sempre secondo il FMI, il prossimo anno il tasso di disoccupazione, oggi al 25%, potrebbe salire al 28%. Il Venezuela esporta il 10% del petrolio agli Stati Uniti: la minaccia statunitense di sanzioni energetiche rischiano di destabilizzare ulteriormente la situazione. Un ipotetico taglio – che non converrebbe neanche agli americani i quali dovrebbero rifornirsi altrove - acuirebbe le difficoltà estrema in cui versa il Paese, apparentemente senza speranza.
E' a Oriente la speranza di Maduro
Oggi, con la variazione dei corsi petroliferi, per ripagare il debito concesso da Pechino, Caracas deve dare alla Cina due barili per ogni barile originalmente pattuito. In altre parole: se il Paese sudamericano dovesse collassare e Maduro cadere in disgrazia, la Cina rischierebbe un duro contraccolpo diplomatico e finanziario. Un nuovo presidente – ipotizza Christopher Balding sul Foreign Policy – potrebbe decidere di non onorare gli impegni creditizi, scaricare Pechino e virare verso gli Usa alla ricerca di sostegno. Non solo. Il fallimento del Venezuela rappresenterebbe un duro colpo per la diplomazia finanziaria cinese. Balding è tra gli analisti convinti che dietro al progetto infrastrutturale “Belt and Road” si celi un disegno geopolitico, prima ancora che interessi puramente commerciali. La Cina punterebbe ad accrescere la propria influenza su Paesi intossicati da governi dittatoriali artefici di disastrose politiche economiche, offrendo loro un sostegno tramite la concessione di linee creditizie.
Ma correndo rischi altissimi. Con l’apertura di linee di credito verso Paesi a rischio default - tra cui lo Economic Strategy Institute cita Etiopia, Kenya e Sri Lanka - l’estensione di finanziamenti rende la Cina vulnerabile. “I prestiti non verranno ripagati. E’ un perdita totale”, sostiene Clyde Prestowitz, il presidente del think-tank di Washington. “Posso prevedere sviluppi simili nella One Belt, One Road”. Un’inchiesta condotta dal Financial Times assieme al Center for Strategic and International Studies svela alcune difficoltà che incontrano i progetti cinesi all’estero. I progetti ferroviari sfumati in Usa, Venezuela, Messico, Myanmar e Libia, hanno un valore di 47,5 miliardi di dollari. Le cause sono diverse ma riconducibili ai dubbi sulla sostenibilità finanziaria.
Il governo cinese ha sempre ribadito il carattere inclusivo dell’iniziativa, ponendo enfasi sul concetto di win-win cooperation. Il progetto di connettività infrastrutturale via terra e via mare tra l’Asia e l’Europa tocca 66 paesi e un terzo del PIL mondiale. Per il futuro, l’iniziativa “Belt and Road” potrà contare su finanziamenti aggiuntivi di 113 miliardi di dollari, oltre ai 900 miliardi già messi in preventivo nel 2015. Lo ha annunciato lo stesso presidente cinese, Xi Jinping, al primo forum per la cooperazione internazionale all’interno del progetto “Belt and Road”, che si è tenuto a Pechino nel maggio scorso. Un’esposizione gigantesca. Anche un piccolo default potrebbe avere un elevatissimo costo economico e politico.
La strategia di espansione della Cina in America Latina è ambiziosa. Nel 2015 sono stati firmati accordi che puntano a duplicare l’interscambio commerciale a quota 500 miliardi di dollari entro dieci anni e aumentare gli investimenti dagli attuali 85-100 miliardi a quota 250 miliardi[10]. Nel 2016 le banche cinesi hanno concesso al Sud America prestiti per 21 miliardi di dollari[11]. Cile, Perù, Bolivia e Venezuela sono entrati di recente nella Banca Asiatica di Sviluppo (AIIB) – uno dei bracci finanziari dell’iniziativa Belt and Road.
Il Drago non mollerà l'America Latina
Il rapporto amichevole tra Pechino e Caracas è stato sottolineato anche da un recente editoriale del Global Times, il tabloid pubblicato dal Quotidiano del Popolo, il massimo giornale cinese. “Il Venezuela è un amichevole e importante partner della Cina in Sud America”, scrive il giornale più agguerrito e spesso duro sui temi di politica estera. “A prescindere da chi governi il Paese, il commercio con la Cina sarà di beneficio ai venezuelani. Mantenere il commercio con la Cina trascende gli interessi di parte”.
I disordini politici in Venezuela o in altri Paesi dell’America Latina, ammette il quotidiano, sono un fattore di preoccupazione per gli investimenti cinesi nella regione, ma non un motivo sufficiente per ritirarli, nonostante Caracas sia “sotto forte pressione” per le divisioni sociali all’interno e per l'intervento degli Stati Uniti che “non si fermerà”, secondo il tabloid di Pechino. “La Cina”, conclude il Global Times, “non interferirà nel processo politico del Venezuela o di altri Paesi dell’America Latina, e si spera che questi Paesi possano superare le difficoltà e godere dei benefici della cooperazione con la Cina”.