Con i sanguinosi attacchi della domenica delle Palme in due Chiese copte a Tanta - una cinquantina di km dal Cairo - e ad Alessandria, l'Isis ha ufficialmente aperto un nuovo fronte in Egitto. Quarantasette morti in totale, e un centinaio di feriti. Tra questi ci sarebbe potuto essere anche il Papa copto, Tawadros II, che nella cattedrale di San Marco di Alessandria aveva appena guidato la messa.
L'Isis ha dichiarato guerra ai copti d'Egitto, sin dagli ultimi mesi del 2016. I due attentati di domenica scorsa si aggiungono infatti a quello di dicembre scorso nella Chiesa di San Pietro al Cairo, nel quale morirono altre 29 persone, e alla campagna di pogrom indiscriminati che è seguita nel nord del Sinai, in seguito alla quale a febbraio centinaia di cristiani copti hanno lasciato la cittadina di Al Arish, in seguito all'uccisione di sette correligionari, attaccati nei loro negozi o nelle loro case.
Spostare gli attacchi nel cuore delle città
Gli attacchi di Tanta e Alessandria segnalerebbero anche la volontà dell'Isis di portare il proprio progetto genocida nelle città: finora le forze di sicurezza egiziane avevano fatto i conti col jihadismo sopratutto nell'estremo nord del Sinai, un'area desertica e isolata, contro una milizia tribale abbastanza circoscritta che aveva giurato fedeltà ad Al Baghdadi nel 2014, la Ansar Beit al Maqdis. Secondo Mokhtar Awad, esperto di gruppi terroristici della George Washington University, gli attentati di domenica sembrano invece essere stati orchestrati attraverso il coordinamento tra diverse cellule all'interno del Paese, con legami diretti con il quartier generale dell'Isis in Iraq e Siria.
Alcune di esse sarebbero al Cairo, ma la gran parte si troverebbero nel nord del Sinai. Come già accaduto in passato, l'apertura del fronte egiziano è anche una conseguenza delle difficoltà che l'Isis sta incontrando negli scenari in cui è impegnato militarmente:
- in Libia gli uomini di Al Baghdadi hanno perso la loro roccaforte di Sirte;
- in Siria sono sotto crescente pressione nella zona di Raqqa,
- mentre in Iraq, secondo l'esercito iracheno, controllano attualmente meno del 7% del territorio nazionale, mentre prosegue l'offensiva su Mosul.
"L'aspetto propagandistico è centrale: l'Isis vuole dimostrare di essere in grado di attaccare il più popoloso paese arabo, incitando alla guerra settaria. E vuole testare le sue capacità in un Paese non in guerra", spiega Awad.
L'obiettivo è quello di attivare con i cristiani d'Egitto la stessa logica in atto nei confronti dei musulmani sciiti in Iraq. Ma l'Egitto non è l'Iraq, dove il maggiore equilibrio demografico - unito ad uno stato di guerra che va avanti da più di 10 anni - permette di soffiare più efficacemente sul fuoco del settarismo.
Il ruolo dei cristiani copti in Egitto
Nel paese affacciato sul Mediterraneo i copti costituiscono solo il 10% della popolazione, e sebbene non siano rari nella storia recente episodi di discriminazione nei confronti dei cristiani, il programma di genocidio regionale dell'Isis non incontra il sostegno del grosso della popolazione musulmana sunnita, sopratutto di quella urbana. L'aumento di attentati è in parte una conseguenza del fallimento della campagna lanciata dall'Isis, volta non solo in Egitto a distruggere le minoranze attraverso atti di persecuzione portati avanti dalla popolazione locale, senza il bisogno di azioni terroristiche.
Il successo della jihad è "l'uccisione indiscriminata dei cristiani"
L'appello ai pogrom indiscriminati era stato infatti lanciato già nel 2014 da un ideologo dello Stato Islamico, Abu Mawdud al Harmasy, che in uno "studio" dal titolo "Il segreto dell'enigma egiziano" si lamentava della scarsa reattività dei musulmani d'Egitto, descritti come delle "bestie che non sono in grado di capire l'importanza della lotta". Poi, elencava la "chiave del successo del jihad", cioè l'uccisione indiscriminata dei cristiani ovunque e senza bisogno di una ragione che non fosse il loro credo, sopratutto in quelle aree rurali abbandonate a se stesse dal regime egiziano.
Un obiettivo strumentale di questa campagna di sangue è quello di polarizzare la società, destabilizzare lo Stato ed indebolire il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi, che conta sull'appoggio di molte figure cristiane. Un obiettivo in parte raggiunto, visto che in seguito agli attacchi di domenica Al Sisi ha decretato tre mesi di stato di emergenza, condizione in cui gli egiziani hanno vissuto quarantaquattro degli ultimi cinquanta anni.
Obiettivo destabilizzare l'Egitto: lo stato di emergenza
Durante lo stato di emergenza, in Egitto viene sospesa ogni garanzia. Chi è anche solo sospettato di terrorismo viene giudicato da tribunali speciali ad hoc sotto la totale giurisdizione del presidente: tribunali che necessitano di una soglia bassissima di prove a carico e non prevedono appello. Viene dato via libera alle intercettazioni di qualunque tipo di comunicazione e viene attivato il potere di censura sui giornali.
Una prova in questo senso é arrivata lunediì scorso, il giorno dopo gli attacchi: Al Sisi ha infatti fatto bloccare la distribuzione del quotidiano Al Bawaba, normalmente filo-governativo, che aveva criticato pacatamente il ministero degli Interni per le falle nella sicurezza della Chiesa di Alessandria, nella quale l'attentatore suicida è entrato dall'entrata principale. Secondo l'esperta di questioni legali del Tahrir Institute for Middle east policy, Mai el Sadany, "con la proclamazione dello stato di emergenza vedremo gente normale, che magari usa i social network per motivi politici e per organizzare proteste anti-governative, finire in carcere e venir processate da questi tribunali speciali".