Dieci anni fa Vladimir Putin, dal rostro della Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, annunciava che la Storia aveva ripreso a correre e che la Russia ne sarebbe stata il motore. Rinasceva ufficialmente, come aveva previsto più di 150 anni fa Alexis de Tocqueville, quel dualismo ineluttabile per cui Mosca e Washington sarebbero stati destinati a contendersi, un giorno, il mondo intero. Profezia che era sembrata a molti ormai esaurita con il crollo del Muro di Berlino, il conseguente scioglimento dell'Impero Sovietico e il disfacimento della stessa Urss. Un triennio, quello che va dal 1989 al 1992, al termine del quale Mosca si era trovata nella sua parte europea arretrata sui confini del XVII Secolo.
Al di là degli Urali la Siberia restava nella Federazione Russa, ma le repubbliche centrasiatiche, con le loro risorse minerarie e le loro fortissime minoranze russofone, avevano preso la via dell'indipendenza, tagliando la strada che da Mosca conduceva ai mari caldi.
La Fine della Storia
Di fronte alla vittoria su tutti i fronti, a Washington un consigliere di George Bush chiamato Francis Fukuyama proclamò addirittura la Fine della Storia: basandosi sui suoi studi dell'hegelismo concluse che il processo, una volta conclamata la sconfitta dell'antitesi dei valori americani, aveva ormai raggiunto la sintesi. Commentò il New York Times: "Ci aspettanno cent'anni di noia". Più che noia, però, sarebbero stati vent'anni di illusione, dominati da un senso di sicurezza rafforzato da una politica di esportazione del modello economico basato sul mercato (che in Russia si trasformò subito in capitalismo selvaggio) e da fin troppo facili vittorie in Medioriente. Tanto che un altro pensatore americano, Samuel Huntington, dopo aver parlato di un Pianeta destinato ad essere dominato dagli scontri di civiltà, preferì più tardi enunciare la teoria degli Usa "Lone Superpower". Una potenza solitaria che, per assonanza, avrebbe svolto la funzione del Ranger.
Il rilancio della politica espansiva
Putin, quando prende la parola a Monaco nel febbraio di 10 anni fa, rovescia tutto questo. Accusa gli Usa di provocare una nuova corsa agli armamenti nucleari, di minare l'efficacia e l'autorevolezza delle istituzioni internazionali e di aver destabilizzato il Medioriente con la sciocca guerra del 2003. Più che una denuncia, però, è l'enunciazione di un programma. L'uomo che proviene dal Kgb, vale a dire l'unica struttura di potere ad essere sopravvissuta quasi intatta al 1989, ritorna ad politica espansiva approfittando dei vuoti lasciati dagli americani nel corso degli anni immediatamente precedenti. Oggi, a 10 anni da quel giorno, si può vedere come, con grande coerenza e costanza, Mosca ed il suo leader incontrastato abbiano compiuto enormi passi in avanti penetrando persino in aree dalle quali era esclusa la stessa Unione Sovietica, o dalle quali era stata costretta a ritirarsi da molti decenni.
Il 'giardino di casa'
Il primo passo è la ripresa del controllo del giardino di casa. Ancor prima di Monaco, Putin ha riassunto un ruolo egemone nel Caucaso e, con l'ottima scusa di stroncare il terrorismo islamico, ha riportato nella propria sfera d'influenza quasi tutti i paesi dell'area. Con le repubbliche centrasiatiche è stata creato un rapporto che le ha viste abbandonare i sogni - alimentati per un certo tempo dalla Turchia - di un nazionalismo panturanico che andasse dal Bosforo al Gobi. Ora, più che una zona di incertezza lungo il confine sud, sono una fascia di sicurezza garantita dai russofoni, cui Putin stesso si presenta come garante e riferimento.
La Crimea, storicamente russa ma ceduta ufficialmente all'Ucraina nel 1992 dopo una donazione voluta da Krusciov negli anni '50 del secolo scorso, è stata di fatto riportata nel grembo della Madre Russia, tenendo in ben poco conto le istanze di Kiev, Bruxelles e persino Washington. Ma è forse il Medioriente la regione in cui il successo della politica estera russa è più tangibile. Nel 1991, a pochi giorni dallo scoppio della guerra contro l'Iraq, Mikhail Gorbaciov deve constatare che il suo peso nel mondo arabo sia ormai pari a zero. Presenta un piano di pace volto a bloccare l'intervento internazionale in Kuwait, gli risponde solo un sottosegretario italiano, Nino Cristofori. Persino la Siria, alleata tradizionale grazie ad Hafez Assad, alla fine gli volta le spalle.
La sfida a colpi di hacker
Oggi Putin ha imposto alla comuntà internazionale il mantenimento al potere di Bashar Assad, ospita la conferenza di pace nell'amico Kazakstan e detta la linea grazie ad un'inedita intesa con la Turchia di Recep Tayyip Erdogan. Paese Nato, la Turchia, eppure affascinata come mai prima nella sua storia dal richiamo del Cremlino. L'Egitto, sfuggito di mano ai sovietici ai tempi di Sadat, è tra i paesi più vicini a Putin nel mondo arabo. In Libia il generale Haftar, secessionista in Cirenaica, è spesso a Mosca per colloqui ai massimi livelli. E intanto la stessa Europa, dove i paesi del vecchio Patto di Varsavia sono entrati tutti chi nell'Ue, chi nella Nato, guarda preoccupata alle pressioni che la Russia è sempre più in grado di esercitare attraverso Internet. Fake news e manipolazioni dei risultati elettorali: questo temono in Olanda, Francia e Germania. In Italia è stato di recente denunciato un lungo assalto di hacker ai principali sistemi informatici del governo. Si chiedeva nel 1982 il settimanale Newsweek: "Resisterà l'Unione Sovietica all'avvento del computer?". Di certo la Russia di Putin ha imparato bene la lezione, ed ora domina la materia.