Ha taciuto di fronte al genocidio, ha parlato semmai di risposta proporzionata alle provocazioni di una minoranza discriminata dalle autorità birmane sulla base di motivazioni religiose ed etniche. Ma resterà a vita un Premio Nobel per la Pace. Come Nelson Mandela, come Lech Walesa. Come Madre Teresa di Calcutta.
Già un anno fa, di fronte ad una petizione internazionale firmata da 380.000 persone, la Fondazione Nobel si era dichiarata impossibilitata ad intervenire. Olav Njolstad, capo dell'istituto norvegese dei Nobel, aveva precisato che né le disposizioni del fondatore del premio Alfred Nobel, né le regole della fondazione prevedono questa eventualità.
Questo nonostante altri due vincitori del riconoscimento, l'arcivescovo sudafricano Desmond Tutu e la giovane attivista pachistana Malala avessero esortato la donna a intervenire per mettere fine alla persecuzione della minoranza musulmana in Birmania.
Insomma, non si può
Eppure "non è previsto" ritirare il premio a un vincitore, ha ribadito sempre Njolstad nelle utlime ore. "Continuiamo a fare appello a tutti gli attori coinvolti in Myanmar, affinché allevino le sofferenze dei Rohingya e mettano fine alla loro persecuzione e repressione", ha aggiunto Njolstad. Questo è il massimo che si può fare.
Le accuse dell’Onu
Suu Kyi ha vinto il Nobel nel 1991, quando era una figura chiave dell'opposizione alla giunta militare in Myanmar. Secondo un rapporto pubblicato dalla missione del Consiglio per i diritti umani dell'Onu, Suu Kiy "non ha usato la sua posizione di capo del governo 'de facto', né la sua autorità morale, per contrastare o impedire gli eventi nello Stato di Rakhine", dove l'esercito ha commesso un vero e proprio "genocidio" dei Rohingya.
L'Alto commissario Onu per i diritti umani, Zeid Raad al Hussein, ormai al termine del suo mandato, ha detto alla Bbc che la leader politica "avrebbe dovuto dimettersi" piuttosto che coprire le operazioni dei generali. "Era nella posizione di fare qualcosa - ha denunciato Hussein - avrebbe potuto dimettersi o rimanere in silenzio, invece è stata la portavoce dei militari birmani". L'Alto commissario ha ricordato che Suu Kyi ha difeso i generali parlando di "disinformazione" e "fabbricazioni" per minimizzare le violenze.
“Ci sono prove evidenti”
Il rapporto Onu dedicato alla crisi dei Rohingya cita l’esistenza di prove evidenti di genocidio e crimini contro l'umanità perpetrati su larga scala contro la minoranza, vittima tra l'altro di stupri, violenze sessuali e omicidi di massa. Aung San Suu Kyi, leader di fatto del Paese, non ha mai pronunciato parole di condanna per le violenze contro i Rohingya, attirandosi le critiche internazionali. Per lei, la repressione militare è stata una risposta proporzionata ai ribelli della minoranza islamica dopo i loro attacchi a commissariati di polizia. Secondo i gruppi per i diritti umani, però, l'offensiva contro i Rohingya era già stata pianificata.
Il governo è con lei
Il Myanmar ha respinto le accuse contenute nel rapporto Onunonostante i risultati dell'indagine delle Nazioni Unite abbiano spinto gli Usa e altri Paesi a chiedere che la giustizia accerti le responsabilità dei vertici militari birmani.
Il portavoce del governo, Zaw Htay, ha ricordato che il Myanmar "non ha concesso alla missione Onu di entrare nel Paese, ed è per questo che non concordiamo e accettiamo qualsiasi risoluzione fatta dal Consiglio per i Diritti Umani". Il Paese asiatico ha istituito la propria commissione d'inchiesta indipendente che risponderà alle "false accuse fatte dalle agenzie Onu e altre comunità internazionali", ha aggiunto, assicurando che le autorità birmane hanno un atteggiamento di "tolleranza zero verso le violazioni di diritti umani" e che il governo prenderà "iniziative legali contro qualsiasi" abuso.