Un muro come quello che Donald Trump sogna per dividere gli Stati Uniti dal Messico. È il progetto della Guinea Equatoriale, uno dei paesi più ricchi dell’Africa centrale – almeno in termini di risorse naturali - per porre la parola fine all’arrivo dei migranti provenienti, in massima parte, dal confinante Camerun.
Un muro da 183 chilometri
Il piano messo a punto dal presidente Teodoro Obiang Nguema Mbasogo, secondo Quartz, è di erigere un muro lungo 183 chilometri che divida la Guinea Equatoriale dal Camerun, il paese con cui confina a nord. Le fondamenta della barriera sarebbero già state sistemate: un ufficiale dell'esercito camerunese ha dichiarato all'agenzia di stampa Afp che i soldati equatoguineani hanno attraversato il fiume Ntem, il corso d’acqua che segna il confine naturale tra i due paesi, e posto le pietre miliari nella città di Kye-Ossi, sul lato camerunese. Piccole testimonianze di un progetto che comincia a prendere forma: le pietre miliari sono state collocate in punti “tra uno e due chilometri all'interno del nostro territorio”, ha detto l'ufficiale.
La mossa, come prevedibile, non è piaciuta alle autorità di Yaoundé: l’esercito camerunese, ha aggiunto la fonte consultata dall’Afp, “non tollererà alcuna intrusione illegale nel suo territorio”. E una settimana fa, era l’8 agosto, il ministro degli Esteri del Camerun ha convocato l’ambasciatore equatoguineano nel paese. Anastasio Asumu Mum Munoz, in missione diplomatica a Yaoundé dal 2013, ha confermato il piano ma negato la storia delle pietre.
Che cos’ha la Guinea Equatoriale da proteggere?
La decisione di proteggere la frontiera sembra avere diverse origini. Voice of America scrive che la Guinea Equatoriale accusa da sempre il Camerun di permettere ai suoi cittadini, e a quelli provenienti dagli altri paesi dell’Africa occidentale, di entrare illegalmente nel suo territorio. Ma la piccola repubblica presidenziale, di fatto una dittatura da 40 anni in mano allo stesso uomo, Teodoro Obiang, ha un tesoro: il petrolio, scoperto a metà degli anni novanta. Oggi la Guinea Equatoriale è il quarto più grande produttore africano di petrolio, alle spalle di Nigeria, Angola e Algeria. All’oro nero, poi, si aggiungono notevoli riserve di gas.
Che la disponibilità di risorse naturali si traduca in benessere economico degli abitanti, però, è tutt’altro che scontato. Così, il milione e duecentomila abitanti non gode di particolare agio: il reddito pro capite della Guinea Equatoriale si ferma a 7.050 dollari (dato riferito al 2018 ed elaborato dalla Banca Mondiale), ponendo il paese africano al 74esimo posto nella relativa classifica mondiale, appena sotto alla Dominica e subito prima del Gabon. E negli ultimi anni, “in seguito alla caduta del prezzo del petrolio, la situazione macroeconomica e fiscale del paese si è deteriorata”, aggiunge la Banca Mondiale.
Le risorse però rimangono: proteggere i confini, di primo acchito, sembra la mossa di chi vuole mettere i cittadini della Guinea Equatoriale al riparo da vicini interessati a sfruttarne le ricchezze e le prospettive di impiego.
L’altra ragione: il timore di un colpo di stato
Alla motivazione economica se ne aggiunge un’altra: quella politica. Lo scorso 3 agosto, Teodoro Obiang ha tagliato il traguardo dei 40 anni da presidente da quando, nel 1979, depose con un colpo di stato il suo predecessore, Francisco Macías Nguema, che per inciso era suo zio.
Durante la lunga dittatura, Teodoro ha dovuto affrontare diverse insidie e altrettanti tentativi di golpe, tra cui quello del 2004 che coinvolse il figlio dell’ex premier britannica Margaret Thatcher, Mark. L’ultimo, in ordine temporale, risale al dicembre del 2017, quando una trentina di uomini provenienti da Ciad, Repubblica Centrafricana e Camerun vennero fermati mentre si muovevano con un vero e proprio arsenale fatto di lanciarazzi, fucili e munizioni. Furono rintracciati e fermati nei pressi del confine con il Camerun, proprio dove presto potrebbe sorgere un muro che protegga anche dal pericolo di ribaltoni politici. Il figlio del capo di stato, Teodoro Nguema Obiang Mangue, oggi ricopre la carica di vicepresidente e pare pronto a proseguire l’eterna dinastia in un paese che, stando a Transparency International, si colloca al 172esimo posto su 180 nella classifica relativa alla corruzione.