Alla fine Evo Morales ha ceduto. Dopo settimane di crescenti proteste che denunciavano brogli e contestavano i risultati delle presidenziali del 20 ottobre, ha annunciato nuove elezioni e le proprie dimissioni. L'organizzazione degli Stati americani (Oas) aveva appena chiesto l'annullamento del primo turno elettorale, al termine di una missione conclusa con un rapporto tecnico che aveva riscontrato diverse "irregolarità". Non solo. Secondo il Clarìn, giornale albiceleste, un aereo con a bordo il presidente aveva lasciato La Paz diretto verso l'Argentina.
I media boliviani, in realtà, hanno mostrato immagini dell'aereo presidenziale atterrato a Chimore, dipartimento di Cochabamba, da dove lo stesso Morales ha annunciato le dimissioni. In precedenza il quotidiano argentino Clarin, che aveva dato la notizia della fuga, aveva poi precisato che il presidente argentino uscente, Mauricio Macri, aveva negato asilo a Morales.
La novità delle elezioni non aveva infatti fermato le proteste. Prima di Morales si erano dimessi il presidente della Camera, Victor Borda, e il ministro delle Miniere, Cesar Navarro, che hanno deciso di lasciare gli incarichi dopo che le loro case a Potosì sono state attaccate da manifestanti inferociti e nel caso dello speaker, data alle fiamme. Poco dopo si è dimesso anche il il ministro degli Idrocarburi, Luis Alberto Sanchez. La folla ha bruciato anche la casa di una sorella di Morales, nella città di Oruru e di due governatori della regione omonima e di quella di Chuquisaca.
Anche Papa Francesco aveva invitato a pregare per "l'amata Bolivia", e aveva chiesto che il processo di revisione dei risultati delle presidenziali avesse luogo "in pace" e senza precondizioni.
In una breve comparsa nell'hangar presidenziale dell'aeroporto internazionale di El Alto, una città vicina di La Paz, senza citare il rapporto dell'Oas, Morales ha annunciato che il nuovo appuntamento con le urne si svolgerà con un rinnovato organo elettorale (per settimane l'opposizione e i comitati civici hanno accusano quello attuale dei brogli). Questo prima della sua partenza verso l'Argentina.
È dal 2017 che parte dei boliviani sono in rotta con il primo presidente indigeno, accusato di autoritarismo e di essere coinvolto in casi di corruzione, oltre ad avere ottenuto il via libera alla sua quarta candidatura, in barba al referendum popolare a lui contrario. Tre settimane fa il presidente è stato rieletto per il quarto mandato consecutivo, fino al 2025, superando il centrista Carlos Mesa di oltre 10 punti, ma il risultato è stato subito contestato dall'opposizione.
Nella serata di oggi, infine, le Forze armate boliviane hanno chiesto a Evo Morales di dimettersi per consentire la pace in Bolivia. A dichiararlo è stato il comandante in capo, il generale Williams Kaliman: "Dopo aver analizzato la situazione del conflitto interno, chiediamo al presidente dello Stato di rinunciare al suo mandato presidenziale per consentire la pacificazione e il mantenimento della stabilità, per il bene della nostra Bolivia". Le dimissioni alla fine sono arrivate.
Le proteste in tutto il Paese
Gli scontri tra sostenitori e detrattori del presidente sono costati almeno tre morti e 384 feriti. I potenti comitati civici che hanno manifestato per giorni nelle strade chiedono che nè Morales nè Mesa si ripresentino.
Nelle settimane di tensione, Morales ha chiesto il sostegno di organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite e dell'Oas, e anche quello del Papa. E ha sollecitato il dialogo con l'opposizione, ma il leader, l'ex presidente Carlos Mesa, ha respinto le aperture, come anche Ruben Costas, il potente governatore dello Stato orientale di Santa Cruz.
Negli ultimi giorni, alle proteste si è aggiunto l'ammutinamento di numerosi poliziotti in diverse regioni che ha fatto scattare, da parte del capo di Stato, l'allarme per un "colpo di Stato". Cominciato venerdì in seno all'unità d'èlite nota come Utop nella città di Cochabamba, l'ammutinamento si è rapidamente diffusa alle unità di Sucre e Santa Cruz, roccaforte dell'opposizione.