Tra i favoriti per il premio Nobel per la pace che sarà assegnato il prossimo 6 ottobre a Oslo spiccano i nomi dei tre artefici dell'accordo sul nucleare con l'Iran, il ministro degli Esteri di Teheran, Javad Zarif, l'allora segretario di Stato Usa, John Kerry, e Federica Mogherini, Alto Rappresentante Ue per la Politica Estera e la Sicurezza. Una scelta che avrebbe un preciso significato politico e consentirebbe al comitato, che ieri aveva indicato in 318 i candidati (di cui 103 sono organizzazioni), di andare sul sicuro, evitando di essere eventualmente sbeffeggiata in futuro, come è accaduto sia per Barack Obama sia per, soprattutto, Aung San Suu Kyi.
Il caso Aung Saan Suu Kyi
È di queste ore la notizia che il ritratto della leader birmana è finito nei magazzini dell'Università di Oxford, che lo ha rimosso dal muro dell'ingresso principale del college in cui la 'donna forte' del Myanmar aveva studiato negli anni Sessanta. I vertici universitari non hanno chiarito se la decisione sia il frutto di un ripensamento sulla statura politica e morale di Aung San Suu Kyi, che si guadagnò nel 1991 il Nobel per la pace per aver sostenuto quei "diritti umani" che oggi sembra voler schiacciare nello stato birmano di Rakhine dal quale è in fuga la minoranza musulmana dei Rohingya, ma è molto probabile che sia andata così.
Diversamente da quanto accadde con Nelson Mandela, che condivide con la leader birmana la sorte di leader politico che dalla prigione arriva alla guida del paese, quest'ultima non gode oggi di buona fama, e la sua cattiva reputazione potrebbe riflettersi sullo stesso comitato eletto dal parlamento di Oslo che ogni anno assegna il premio. E se è vero che che nel 1991 non si poteva sapere quali posizioni la birmana avrebbe preso 16 anni dopo, è altrettanto certo che quel premio le ha conferito fino a oggi una sorta di 'aura' - spiega a Reuters Dan Smith, direttore dell'Istituto ricerca per la pace di Stoccolma - che le ha consentito di "mascherare la terribile verità" degli abusi e dei crimini compiuti sui Rohingya.
Obama, Nobel riluttante
La stessa cosa è accaduta, in misura minore, a Barack Obama, che però si e' sempre mostrato consapevole delle conseguenze che sulle azioni di un politico ha la forza simbolica del premio. L'ex presidente americano sapeva perfettamente, da quando lo ricevette nel 2009 a pochi mesi dall'inizio del suo primo mandato, che una volta insigniti del premio bisogna esserne all'altezza. Il suo, si può dire, e' il caso del Nobel 'riluttante': "Non sarei nel giusto se non riconoscessi che la vostra decisione generosa ha generato delle polemiche", esordi' nel discorso di accettazione. "...Il problema maggiore è che io sono il comandante in capo di due guerre", continuò Obama, che di li' a poco avrebbe triplicato il numero di soldati in Afghanistan.
Così, questa volta la convinzione di Oslo è che potrebbe esser meglio puntare sul passato lanciando, però, un messaggio per il futuro: Papa Francesco, l'Alto commissariato dell'Onu per i rifugiati, guidato dall'italiano Filippo Grandi, e i "White Helmets" siriani sono ritenuti tra i possibili destinatari del premio. Ma nella cassaforte della pace c'è oggi almeno una oggetto prezioso: l'accordo sul nucleare siglato nel 2015 dalla comunità internazionale con l'Iran. A portarlo a termine furono, appunto, Mogherini, Zarif e Kerry. A voler scassinare la cassaforte, revocando o profondamente modificando l'accordo è Donald Trump: un premio assegnato in quella direzione, spiega Henrik Urdal, direttore dell'Istituto ricerca per la pace di Oslo, rappresenterebbe quindi "un segnale per gli Stati Uniti".