“Che cosa vuole che le dica… Sì, mi annoio un po’”. Vito Alfieri Fontana ha 68 anni e da poco più di uno è in pensione. Il fisico l’ha costretto a dire basta: un intervento al cuore, un altro agli occhi. “Anche le retine non ne potevano più dello stress”, prova a scherzare. Ma la voce tradisce un velo di malinconia.
Alle spalle, l’ingegnere barese ha quindici anni abbondanti vissuti nei teatri di guerra cercando di togliere le mine incastonate nel terreno: “Nel 1999 alla televisione e alla radio passavano gli annunci di una ong italiana, Intersos. Aveva ricevuto dei finanziamenti per andare a sminare il Kosovo – racconta all’Agi - Cercavano persone che avessero una minima esperienza nel settore. Mi sono presentato io”.
L’esperienza, in effetti, non gli mancava: per anni era stato il direttore della Tecnovar, una delle più importanti aziende produttrici di mine. Progettavano e costruivano ordigni che da Bari finivano in tutto il mondo.
Vorrebbe essere ancora là a sminare?
Mi piacerebbe, sì, ma in quel lavoro bisogna essere una risorsa e si fa in fretta a diventare un peso. A camminare su un campo minato si inizia a sudare freddo e una persona avanti con gli anni può inciampare. Quando mi è capitato di cadere in una zona a rischio esplosione ho capito che rischiavo di mettere in pericolo anche la vita di qualche collega… sarei un pazzo a tornare.
Nel ‘99, invece, non ha avuto dubbi a partire.
Andai in Kosovo, poi in Serbia per fare una verifica dei danni delle bombe a grappolo, e infine dieci anni in Bosnia tra 2002 e 2012. Prima di partire, invece, avevo preso parte alla conferenza preparatoria della Convenzione per la messa al bando delle mine antiuomo. Era il ‘97, a Oslo.
Come fu trovarsi al tavolo con chi combatteva le mine?
Fu un’esperienza sconvolgente sia per me che per le persone con cui collaboravo: mai si sarebbero aspettate di trovarsi a discutere con me che arrivavo dalla produzione di mine.
Perché chiamarono proprio lei?
I campaigners, i sostenitori della messa al bando, non avevano molta esperienza: c’era il rischio che alcuni dispositivi esplosivi, che tecnicamente non erano catalogati come mine antiuomo, potessero essere esclusi dalla Convenzione, rimanendo quindi ammessi e vanificando buona parte della sostanza del trattato. L’ho fatto notare, ma probabilmente se non l’avessi fatto io ci avrebbe pensato qualcun altro.
Che cosa ricorda di quell’esperienza a Oslo?
L’inizio è stato duro. C’è gente che è nata buona, io non lo ero. È stato difficile far capire agli altri che uno con la mia esperienza poteva essere molto utile.
Sul campo invece?
Esistono questioni tecniche che, esaminando le mine, uno del settore può intuire. Quando mi trovavo in Jugoslavia, per esempio, trovammo mine che avevano un errore di progettazione nella capsula esplodente: erano destinate a disinnescarsi autonomamente nel giro di 6 mesi, massimo un anno. Mi sono permesso di far notare che, nei casi in cui non c’era la possibilità di bonificare tutto in un anno, sapendo che c’erano quelle mine difettose si poteva ritardare l’intervento e recintare l’area invece di bonificarla. Si trattava di saper entrare nella mente del progettista.
In Bosnia ha diretto alcuni progetti di sminamento…
Per anni, quando sentivo squillare il telefono sobbalzavo sulla sedia. Vivevamo con l’incubo di una telefonata di emergenza, con la paura che ci fosse incidente sulla linea di lavoro. Durante le riunioni di noi direttori, alle Nazioni Unite o nei luoghi d’azione, eravamo sempre raggiungibili. Sempre con la suoneria accesa. Le lascio immaginare il timore di ricevere una chiamata. Ma fortunatamente nelle squadre che ho diretto non c’è mai stato un incidente.
Perché ha deciso di dedicarsi allo sminamento?
Ho ritenuto che dovessi dare un taglio netto dal punto di vista etico alla mia situazione. Tenga però presente che anche chi smina finisce per essere affascinato dalle armi: si crea uno strano rapporto tra l’ordigno da disinnescare e chi è incaricato di farlo. Ho visto gente che a farlo si esalta; io credo invece che l’unico sentimento che si debba provare è la paura. Una paura sana, nel senso di prudenza, di fare le cose con calma, seguire le istruzioni.
Com’è stato vivere in Bosnia?
Mi ha consentito di capire quanto sia inutile la guerra: chi ci va di mezzo sono solo i poveracci. I mercenari se ne tornano a casa, gli eroi muoiono e politici e generali fingono di combattere. Solo i poveracci rimangono lì. Ma la soddisfazione di vedere un contadino libero di tornare sul terreno bonificato è indescrivibile.
Che cosa le è rimasto di quegli anni?
Ho visto rinascere una nazione, una cosa che mi ha fatto molto bene.
Ha fatto pace con se stesso?
Fare pace con se stessi non è possibile, quello che è successo prima mi pesa sempre. Abbiamo rimesso in funzione fabbriche, stazioni ferroviarie, scuole: sono cose che mi danno grande gioia. Ma quando si lavora non ci si può accontentare di dire ‘Se non lo faccio io lo farà qualcun altro’. Occorre preoccuparsi di non fare del male: anche qualcun altro, poi, si porrà gli stessi interrogativi.