La Convenzione internazionale per la proibizione dell'uso, stoccaggio, produzione, vendita di mine antiuomo e relativa distruzione compie 20 anni. “Il bilancio è positivo”, spiega all’Agi Giuseppe Schiavello, direttore della Onlus Campagna italiana contro le mine. Ma rimangono ancora diverse cose da fare per centrare l’obiettivo di ripulire da questi ordigni esplosivi l’intera superficie terrestre entro il 2025. Di mine, infatti, si continua a morire: nel 2017 le vittime accertate sono state 2793, i feriti oltre settemila.
Il numero totale di dispositivi esplosivi ancora sparsi sul terreno “è impossibile da quantificare”, spiega l’International Campaign to Ban Landmines (Icbl), premio Nobel per la Pace nel 1997 per il suo lavoro. Ciò che si sa è che ogni anno se ne scoprono centinaia di migliaia: nel solo 2017 gli sminatori hanno estratto dal terreno 168 mila ordigni antiuomo; nell’arco degli ultimi cinque anni i ritrovamenti sono stati più di un milione. I Paesi coinvolti sono una sessantina. L’unica stima sul numero totale delle mine arriva da un’altra organizzazione umanitaria, Care International, secondo cui gli ordini ancora presenti sono circa 110 milioni.
Balcani, Colombia, Siria e Yemen: gli angoli più contaminati al mondo
La Convenzione, nota anche come Trattato di Ottawa, risale al 1997 ma è entrato in vigore soltanto l’1 marzo del ‘99. Firmandolo, i Paesi si impegnano a non utilizzare mine antiuomo, a procedere alla distruzione di quelle presenti e a battersi per evitarne il commercio. Dell’accordo fanno parte 164 Paesi: tra questi spicca l’assenza degli Stati Uniti: “Non aderiscono ma hanno smesso di usarle, produrle e venderle – assicura Schiavello - e vengono investiti molti soldi nella bonifica”. Oltre a Washington mancano all’appello Paesi come India, Cina, Russia, Corea del Nord e del Sud, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita e Singapore.
#PrinceHarry appeals to the Convention & the world to rally behind the ambition to reach the #LandmineFree2025 goal.Brainchild campaign of @MAGsaveslives & @TheHALOTrust it belongs to us all who want 2end the suffering caused by these weapons. Vid in full: https://t.co/yH5FUMv4LC pic.twitter.com/OwCmlBwCIu
— Anti-Personnel Mine Ban Convention (@MineBanTreaty) 19 dicembre 2017
Ogni anno l’International Campaign to Ban Landmines (Icbl) e la Cluster Munition Coalition (Cmc) pubblicano il Landmine report, il rapporto che include l’analisi dei territori con la più alta concentrazione di mine ancora piazzate nel terreno, i Paesi cioè dove gli ordigni coprono aree più ampie di 100 chilometri quadrati: in Europa sono Croazia e Bosnia, coinvolte nelle guerre balcaniche degli anni ‘90. E poi Turchia, Afghanistan, Iraq, Azerbaijan, Cambogia, Thailandia, Yemen, Chad e Angola.
Chi usa ancora le mine per fare la guerra?
Nel 2017, segnala il rapporto, l’unico Paese le cui forze governative hanno utilizzato le mine è il Myanmar, l’ex Birmania. Ci sono però una serie di aree in cui simili ordigni sono stati utilizzati da gruppi armati non statali: “È il cosiddetto utilizzo terroristico”, spiega Schiavello. Accade in Afghantistan, in Colombia, in India e Pakistan. E poi ancora in Nigeria, Thailandia, Yemen o nel caso dell’Isis: situazioni in cui i trattati possono fare poco.
Sminamento, Siria (afp)
Della situazione in Siria, teatro di guerra dal 2011, non si hanno a disposizione dati perché non esistono organizzazioni che si occupano di ricerca e bonifica, ma è certo “un ampio ricorso a mine improvvisate”. A cambiare, infatti, sono anche le tipologie di ordigni: artigianali, fatti con mezzi di fortuna, ma altrettanto pericolosi.
Ripulire il mondo dalle mine non significa soltanto bonificare
C’è poi il caso di Paesi, come la Libia, dove “gruppi militari irregolari possono ritrovarsi in mano arsenali che contengono mine di 30-40 anni fa, mai usate né smaltite, che possono così tornare nella disponibilità di gruppi terroristici”.
La questione è complicata: garantire un futuro senza mine antiuomo non significa soltanto bonificare la terra nella quale possono nascondersi: servono coordinazione, politiche condivise e una visione di respiro internazionale. “Ottawa – prosegue Schiavello - ha consentito di aprire una discussione sul tema e ha reso possibile anche occuparsi delle sub-munizioni cluster”, gli ordigni a grappolo che, nel 2008, sono stati a loro volta banditi.
Non solo: gli accordi hanno anche aperto la strada a diversi progetti come quello di Regione Piemonte, Intersos e Campagna Mine che riguardò Sarajevo: “In concomitanza con i Giochi Olimpici di Torino, nel 2006, venne organizzata una raccolta fondi grazie alla quale fu possibile ripulire dalle mine il monte Trebevic”, simbolo delle Olimpiadi bosniache dell’84, prima, e dell’assedio serbo, un decennio più tardi.
Il ruolo italiano oggi: una legge contro i finanziamenti
Molti fattori possono intervenire sulle operazioni di messa in sicurezza dei Paesi: “Ricordo quanto accaduto in Mozambico dove un’inondazione spostò gli ordigni che erano già stati mappati, vanificando il lavoro fatto, o il caso dell’Ucraina da dove oggi arrivano denunce di utilizzo di ordigni stoccati in passato ma mai distrutti per mancanza di fondi”.
Gli ordigni però si combattono anche a monte, contrastandone la produzione: “In Commissione Finanza al Senato – conclude Schiavello – è in discussione una legge che proibisce di finanziare le fabbriche da cui arrivano, in Paesi come Singapore, Corea e Brasile”. Fin dal 2001, poi, l’Italia ha istituito un Fondo per lo sminamento umanitario che consente di operare attivamente, di assistere le vittime e di sostenere le popolazioni: perché se è vero che il bilancio di questi vent’anni è positivo, “basta una mina per rendere inservibile un intera area, per rendere impossibile ricostruire, sia fisicamente che economicamente”.