Un anno fa nessuno se lo sarebbe aspettato, nel vedere un giovane presidente a capo di un partito appena nato conquistare l’ampia maggioranza dei seggi nell’Assemblea Nazionale francese. Oggi Emmanuel Macron, il brillante e spregiudicato inquilino dell’Eliseo, sta vivendo l’estate dello scontento di Francia. E non sembra ancora in grado di rovesciare la situazione.
A metà luglio l’inaspettata vittoria dei bleus ai Mondiali di Russia era sembrata l’ultimo tocco di fortuna su un uomo dal sole in tasca. Da allora è stato invece un costante scivolare sulla china dei sondaggi, fino a raggiungere il 31 percento di gradimento: persino Francois Hollande, il suo scialbo predecessore, aveva fatto meglio. Lui, il socialista che finì per essere invitato a non ripresentarsi dai suoi stessi compagni di partito.
E se da allora il Partito Socialista è praticamente scomparso dalla scena, da sinistra Macron viene impietosamente attaccato da chi un anno fa gli contese – non senza una buona affermazione – l’onore di sfidare la destra al ballottaggio. “Il macronismo inizia a marcire”, sentenzia senza mezzi termini, via Twitter, Jean-Luc Melenchon, leader di “France Insoumise” e della sinistra radicale transalpina. Al primo turno delle presidenziali Melenchon ottenne il 20 percento contro il 25 del centrista, in questo momento le percentuali potrebbero essere invertite.
La delusione di Monsieur Hulot
Lo stato di confusione all’Eliseo è testimoniato dal vorticoso turbinio di poltrone che da tre giorni fa girare la testa agli osservatori. Il 28 agosto è il ministro dell'Ambiente francese, Nicolas Hulot, ad annunciare le dimissioni, senza avvertire né Macron né il premier Edouard Philippe, sostenendo di essersi "sentito solo" nella sua lotta al cambiamento climatico. In altre parole, snobbato al limite della derisione. Poi è stata la volta della ministra francese dello Sport, Laura Flessel, che ha annunciato l'addio al governo "per ragioni personali".
L’indomani, grazie a un minirimpasto, il presidente dell'Assemblea nazionale, Francois de Rugy, è andato al posto di Hulot; mentre l'ex nuotatrice Roxana Maracineanu è diventata ministro dello sport. Avvicendamenti poco convincenti, ma soprattutto scavalcati dal terzo abbandono in pochi giorni, quello dello stesso portavoce presidenziale, Bruno Roger-Petit (che però ha smentito la voce circolata sui media che lo volevano dimissionato o defenestrato). È vero però che l'Eliseo, in evidente crisi di consenso, sta pensando ad una riorganizzazione complessiva della Comunicazione e potrebbe richiamare Sylvain Fort, attualmente ghost writer del presidente ed ex consigliere per la comunicazione nei mesi della travolgente campagna elettorale del 2017. Insomma, una cosa che sa di capro espiatorio.
Quando la coerenza non paga
Ma cosa ha fatto il giovane e talentuoso Macron per arrivare a tanto? Del resto, finora è stato sostanzialmente fedele al programma elettorale. Ha fatto di tutto per rivedere le leggi in materia di lavoro, ha riformato la gestione – pubblica – delle ferrovie, ha persino abbassato le tasse. Ma talvolta la coerenza non paga: facendo così Macron si è alienato buona parte del blocco sociale in fuga dalla sinistra tradizionale ma ancora molto affezionato a certi schemi. Come è accaduto nel suo confronto con il mondo della scuola e dell’università. Quanto alle tasse abbassate, il ceto medio non ne ha beneficiato, e la cosa non lo rende molto contento.
Un’economia in modalità pausa
Non è l’unico neo nel bilancio di 17 mesi all’Eliseo. La disoccupazione è scesa, ma non abbastanza: solo dello 0,3 percento (il dato nazionale è del 9 percento). Quanto alla legge di bilancio, il governo ha appena dovuto ammettere che le previsioni di crescita su cui si baserà non saranno dell’1,9 percento, come si immaginava, ma dell’1,7.
Sono numeri che non garantiscono un’accoglienza entusiasta per le riforme che Macron immagina si possano varare nel corso dell’inverno: le pensioni e quella della pubblica amministrazione (verrebbero tagliati in due anni circa 14.000 posti di lavoro).
Cosa c’è dietro le dimissioni di Hulot
Nei prossimi mesi dovrebbe giungere anche un ulteriore gesto coraggioso da parte delle autorità francesi: la revisione della politica energetica nazionale. Il ministro dell’ambiente, in Francia, sovrintende anche ai programmi di approvvigionamento energetico, e l’abbandono di Hulot giunge proprio alla vigilia di quello che avrebbe dovuto essere il varo di un programma pluriennale di profonda revisione, tale da portare entro il 2035 il Paese al dimezzamento dell’energia proveniente dalle centrali nucleari, a vantaggio delle rinnovabili.
Un progetto a cui Hulot aveva legato il suo nome e il suo prestigio, e che ora pare destinato ad un forte ridimensionamento.
La comunicazione, ma non solo
Grazie ad un sistema istituzionale votato alla stabilità, Macron può continuare tranquillamente a governare fino alla fine del mandato. Del resto ha una maggioranza così solida in Parlamento da permettergli di superare con tranquillità due voti di sfiducia ancora a luglio, nel pieno del Caso Benalla. Ma il dato politico è un altro: per la prima volta all’Assemblea Nazionale le opposizioni di destra e di sinistra hanno votato insieme. Segno che nelle rispettive basi sta coagulando un forte risentimento comune.
La storia di Benalla, la guardia del corpo privata fotografata mentre un Primo Maggio picchia vestita da poliziotto un gruppo di manifestanti di sinistra (non esattamente il miglior modo per cercare di prendersi i voti di Melenchon), è considerata all’Eliseo liquidabile come una questione di comunicazione.
Quello che dovrebbe preoccupare di più è il diffondersi di uno stato d’animo generale di stanchezza e delusione nei suoi confronti, quello che un giornale tedesco non certo contrario a Macron, Die Welt, sintetizza con queste parole: “L’Europa ha perso una cosa in cui sperava, cioè che la Francia fosse una potenza in grado di riscrivere le regole”. Una delusione atroce.