Un vero e proprio “buco nero”, le prigioni clandestine libiche, un inferno fatto di torture, stupri, sevizie, stanzoni maleodoranti e fame. Come ricorda l’Avvenire in un lungo reportage, “stando a fonti locali dell’Organizzazione internazionale dei migranti, sono circa 400mila i profughi ‘contabilizzati’ dalle autorità di Tripoli, ma quelli rimasti imprigionati nel Paese, secondo stime ufficiose confermate anche da fonti di intelligence italiane, sarebbero tra gli 800mila e il milione”.
Il giornalista Nello Scavo da Zuara, città costiera a 60 chilometri dal confine tunisino, racconta di “un ammasso indistinto di esseri umani accucciati per terra. Uomini donne e bambini addossati a gruppi di trenta o quaranta per stanza. Ogni vano non supera i cinquanta metri quadri”. Riferisce la storia di Rhoda, “bellissima” 15enne, violentata da più uomini, per notti di fila, finché non si è uccisa con la lama di un rasoio. “Da qualche settimana, dicono i trafficanti di gasolio, c’è solo gente che entra e nessuno che va via coi gommoni – si legge sul quotidiano - Una situazione esplosiva che fa essere gli scafisti ancora più cattivi, forse per il timore di non poter fronteggiare da soli una rivolta di centinaia di persone”.
Il reportage di Rai 1
Immagini di quell’inferno sono andate in onda domenica scorsa su Rai 1, grazie al servizio di Amedeo Ricucci e Simone Bianchi “L’Imbroglio”. Come precisa lo stesso Ricucci su Facebook, “il reportage è stato girato a giugno e luglio, prima cioè del blocco delle partenze dalla Libia. Manca perciò un pezzo importante della "storia", vale a dire i retroscena degli accordi che hanno determinato la nuova situazione”. “Dal quadro che viene presentato nel reportage – aggiunge - la risposta però è abbastanza intuitiva”.
“’L’imbroglio" ci mette davanti alle immagini che giungono da campi di concentramento, culmine di un viaggio dantesco in un inferno chiamato Libia, "ma che io chiamerei 'vite di scarto'. Vite gettate sulle coste per giorni, settimane, mesi, prima di cercare la traversata. Vite gettate per terra in hangar gestiti come fossero porcilaie, e delle quali nessuno degli incaricati sa dire quante siano, come mangino, come dormano, come si nutrano”, scrive il giornalista Riccardo Cristiano, commentando il reportage su Le Formiche.
"I leader europei sono complici"
Ieri la presidente internazionale di Medici senza frontiere (Msf) Joanne Liu, tornata da una visita al centro di detenzione ‘ufficiale’ di Tripoli, ha lanciato un duro atto d’accusa, riportato dal Corriere della Sera: “Quella che ho visto in Libia è la forma più estrema di sfruttamento degli esseri umani basata sul sequestro, la violenza carnale, la tortura e la schiavitù. E i leader europei sono complici” dello sfruttamento mentre “si congratulano del successo perché in Europa arriva meno gente dall’Africa. Accecati dall’obiettivo di tenere le persone fuori dall’Europa, le politiche e i finanziamenti europei stanno contribuendo a fermare i barconi in partenza dalla Libia, ma in questo modo non fanno che alimentare un sistema criminale di abusi”, precisa Liu.
Già a luglio, un rapporto diffuso da Oxfam Italia, Borderline Sicilia e Medu intitolato “L’inferno al di là del mare”, e rilanciato dall’Osservatorio diritti, sottolineava come “in Libia più di 4 profughi su 5 subiscono violenze d’ogni genere, detenzioni illegali, stupri, torture”. In particolare, il report rivela che l’84% delle persone intervistate ha dichiarato di avere subito trattamenti inumani, tra cui violenze brutali e tortura. Inoltre, il 74% ha raccontato di aver assistito all’omicidio o alla tortura di un compagno di viaggio. L’80%, infine, ha subito la privazione di acqua e cibo, mentre il 70% è stato imprigionato in luoghi di detenzione ufficiali o non ufficiali.
Il rischio di creare "nuovi inferni"
“Secondo le organizzazioni che hanno preparato il rapporto – continua l’articolo sull’Osservatorio – il rischio è quindi quello di creare così “nuovi inferni” per le persone in fuga da conflitti, abusi, violenze, fame e povertà. I finanziamenti a Paesi di transito come Niger, Mali, Etiopia, Sudan e Ciad non chiedono come contropartita di rispettare standard nella tutela dei diritti umani dei migranti, a fronte di una maggiore collaborazione nel controllo delle frontiere e nelle procedure di rimpatrio e espulsione”.
I centri di transito, nell’instabilità libica, sono al centro dell’attenzione anche per le Nazioni Unite. Ghassan Salamé, inviato Onu per la crisi in Libia, fa sapere che entro fine settembre verranno inviati in Libia più di duecento caschi blu. Ma anche l’Italia, sotto la pressione di quanti denunciano la responsabilità del governo per le condizioni disumane nelle quali vivono i profughi al di là del mare, cerca una risposta. Così il viceministro italiano degli Esteri Mario Giro parla di coinvolgere le Ong nella gestione dei centri libici. A rispondere alla chiamata Medici Senza Frontiere, Arci, Save The Children, Intersos e Terre Des Homme.
Ong italiane chiamate a collaborare nei campi in Libia
“Normalmente quando le Nazioni Unite schierano i caschi blu è un segnale di disinteresse da parte degli altri attori, e senza precise regole di ingaggio sono praticamente inutili”, ha spiegato all’Agi Raffaele K. Salinari, presidente di Terre Des Hommes Italia e della Terre des Hommes International Federation. Ma il viceministro Giro ha proposto alle Ong di entrare in Libia per “evitare di condannare i migranti all’inferno”, garantendo lo stanziamento di sei milioni di euro. “In realtà sono state le Ong a chiedere al governo di essere coinvolte nei campi libici” continua Salinari. “Terre Des Hommes ha avviato delle missioni esplorative già diversi mesi fa, la situazione non è nuova. Giro e il ministero sono stati molto disponibili e hanno accolto le nostre proposte”. Ma quanto tempo servirà a implementare questa linea non è dato saperlo. “I termini sono ancora da stabilire. Per ora restiamo a disposizione del governo con il quale collaboreremo fintanto che ci sarà sintonia sulle modalità d’impiego”.
Sul fronte europeo, dalla Repubblica Ceca, il premier Paolo Gentiloni fa sapere che le condizioni umanitarie in Libia costituiscono “un allarme che non solo condividamo, ma che è uno dei nostri impegni maggiori da tempo”. La sua presenza all’est è dovuta alla necessità di risolvere un altro problema, quello dei migranti che già sono al di qua del Mediterraneo. Apparentemente con poco successo, dal momento che i Paesi del gruppo di Visegrad rifiutano la proposta di redistribuzione dei migranti sbarcati in Italia e rispediscono al mittente la sentenza della corte di giustizia di Lussemburgo, che boccia il ricorso di Slovacchia e Ungheria contro il piano di ‘relocation’.