Che arrivi dal Fondo Monetario Internazionale o dalla Banca Mondiale, dall'Ilo o dall'Ocse, c'è qualcosa sul quale ogni rapporto economico è d'accordo: i governi del mondo non fanno abbastanza per abbattere il divario salariale che ancora separa i due sessi. Un appello che le principali istituzioni internazionali ripetono da anni e che finora è stato raccolto in maniera concreta da un governo solo, quello di Reykjavik. Dal 1 gennaio l'Islanda è infatti il primo Paese al mondo a sanzionare per legge le aziende e le pubbliche amministrazioni che paghino le donne meno degli uomini. La nuova norma è valida per le società con più di 25 dipendenti, che dovranno ottenere un certificato del governo che provi la loro aderenza ai nuovi criteri. Chi non sarà in grado di provare il rispetto delle nuove regole, sarà sottoposto a sanzioni economiche.
L'Islanda è, secondo il World Economic Forum, il Paese dove vige la maggiore parità tra i sessi. Il "gender pay gap", secondo la formula anglosassone, persiste ancora però nella nazione nordica, sebbene sia stato abbattuto del 10% dal 2006, quando il divario ha iniziato a essere misurato. L'obiettivo del governo è eliminarlo entro il 2022.
"Per essere all'avanguardia occorrono azioni decise"
"Il gender gap è sempre stato un problema qui in Islanda, come da qualsiasi altra parte, perché nelle stesse condizioni degli uomini, a parità di mansione, le donne guadagnavano meno. In Islanda la prima legge fu approvata nel 1961, quindi più di cinquant’anni fa, e non eravamo ancora riusciti a raggiungere la parità: per questo abbiamo pensato di rendere obbligatoria per le imprese la certificazione dell’uguaglianza salariale", spiegò in un'intervista pubblicata dall'Agi lo scorso novembre Þorsteinn Víglundsson, Ministro degli Affari Sociali e dell’Uguaglianza, "se si vuole essere all’avanguardia in questo campo, bisogna compiere azioni molto decise".
"Avevamo alle spalle un’altra esperienza che confermava la bontà di questa linea: l’approvazione, sette anni fa, della prima legge per le quote di genere nei consigli di amministrazione. Le imprese toccate da questa legge (soltanto quelle con 50 o più dipendenti) la adottarono e si adattarono facilmente ad essa, e ciò permise di raggiungere un maggiore equilibrio all’interno di queste realtà, mentre le società più piccole, quelle non obbligate dal provvedimento, non cambiarono molto la loro composizione al vertice", prosegue Viglundsson, "attualmente nelle imprese con 50 o più dipendenti c’è una rappresentanza del 33-34% di donne, mentre prima della legge si aggirava intorno al 20%, percentuale che invece è rimasta invariata per le società non toccate dalla legge (anche in Italia grazie alla legge Golfo-Mosca si è passati dal 7,4% di donne all’interno dei board di aziende quotate del 2011 al 30,3% nel 2016, ndr). Mi sono pertanto convinto che questo meccanismo non si sarebbe rivelato pienamente di successo fino a quando non fosse diventato obbligatorio per tutte le aziende".
Il ministro è però consapevole che nemmeno questa legge risolverà tutto: "Ci sono altre sfide che dovremo affrontare all’interno del mercato del lavoro, come da qualsiasi altra parte in Europa". Ad esempio "le donne sono occupate principalmente all’interno di ambiti legati all’insegnamento e all’assistenza sanitaria, mentre in altri campi, come l’ingegneria o altre materie tecniche, campi in cui tra l’altro si ricevono stipendi mediamente maggiori, predominano gli uomini. Bisogna incoraggiare le donne a dedicarsi anche a studi tecnici".