Dopo la decisione di Donald Trump di spostare l'ambasciata Usa in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, definita dal presidente americano capitale dello Stato ebraico, il leader politico del movimento islamista di Hamas, Ismail Haniyeh, ha chiamato oggi i palestinesi a una nuova Intifada (dal termine arabo che indica la rivolta) per la "liberazione di Gerusalemme". L'annuncio coincide con il trentesimo anniversario della prima intifada, quella delle "pietre", scattata nel campo profughi di Jabalia a Gaza il 9 dicembre 1987 in seguito a proteste spontanee e che si concluse nel 1993, quasi simultaneamente alla firma degli accordi di Oslo (il 13 settembre di quell'anno; il 24 l'Olp ordina agli attivisti di cessare ogni operazione militare contro l'esercito israeliano) .
Come nacque la rivolta
La protesta fu innescata dall'uccisione di quattro profughi palestinesi investiti da un camion guidato da un israeliano. La rivolta venne caratterizzata dai lanci di pietre contro le truppe israeliane, ma assunse anche la forma di disobbedienza civile, scioperi generali e boicottaggi sui prodotti israeliani in tutto il mondo arabo. La rabbia darà vita a una sollevazione che durerà sei anni, fino al riconoscimento reciproco tra Israele e l'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp). Lo scontro coinvolge per la prima volta tutti i palestinesi, sia di Gaza che della Cisgiordania. Si tratta di una protesta popolare che coglie di sorpresa la stessa direzione dell'Olp, allora di base a Tunisi. In campo scendono migliaia di giovani e giovanissimi che prendono a sassate le forze israeliane, impreparate ad affrontare la nuova situazione. Al lancio di pietre queste ultime rispondono con il fuoco delle armi: 1.258 palestinesi restano uccisi. Nel bilancio dei morti, anche 150 israeliani, uccisi in maggioranza verso la fine della prima Intifada per la radicalizzazione della protesta, che vide l'intervento della Jihad Islamica e di Hamas, movimento islamico sorto con la rivolta.
Dalla seconda alla terza Intifada
La seconda intifada esplose il 28 settembre 2000, con la visita del leader del Likud Ariel Sharon al Monte del Tempio, luogo sacro nella Città vecchia. Negli scontri conseguenti morirono più di 3.300 palestinesi e 1.000 israeliani.
L'Intifada al-Aqsa durò fino 2005: cinque anni prima, due mesi dopo il fallimento del summit israelo-palestinese a Camp David, Ariel Sharon, allora leader dell'opposizione della destra israeliana si era recato sulla Spianata delle Moschee per una visita provocatoria che infiammò gli animi. Il giorno dopo, la polizia apre il fuoco e uccide 5 palestinesi sul posto e altri due in città. Il 30 settembre, il video del 12enne palestinese, Mohammad al-Dourra, colpito a morte tra le braccia del padre diventa il simbolo della rivolta.Complessivamente i morti sono 4.700, di cui l'80% palestinesi. Si moltiplicano gli attentati kamikaze in territorio israeliano e gli attacchi contro le forze di sicurezza e i coloni nei Territori occupati.
L'esercito israeliano mette sotto assedio il leader palestinese Yasser Arafat, bloccandolo a Ramallah dal 2001 al 2004, quando riesce a partire per la Francia, dove muore poco dopo. Sharon, divenuto premier, nel 2002 avvia la costruzione di un muro di separazione con la Cisgiordania mentre nel 2005 si ritira unilateralmente da Gaza, evacuando 8mila coloni. L'8 febbraio 2005, Sharon e Abu Mazen, il successore di Arafat, annunciano la fine delle violenze.
La 'terza Intifada', come è stata forse impropriamente definita, è quella dei "coltelli". Hamas, che ha ormai in mano le redini della rabbia e della frustrazione palestinesi, ha dato la propria benedizione ad assalti messi a segno da lupi solitari, che hanno utilizzato sia armi bianche che veicoli lanciati sulla folla. Da ottobre 2015 sono morti oltre 232 palestinesi e più di 40 israeliani.