La parola impeachment rimbalza da una parte all’altra dell’Atlantico portando con sé i dubbi sul futuro del presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Il Congresso, cioè il Parlamento, sceglierà davvero di iniziare un processo a carico dell’inquilino della Casa Bianca mettendo in discussione il suo mandato? I giornali americani e quelli europei si dividono: per alcuni, visti gli ultimi sviluppi delle indagini a carico di due suoi ex collaboratori, la strada della sfiducia al presidente è percorribile; altri sostengono il contrario.
Perché si parla di impeachment e perché si vota a novembre?
Andiamo con ordine: il 21 agosto 2018, a prescindere dal capitolo impeachment, rimarrà nella storia come una delle giornata più complicate dell’amministrazione Trump. Ne abbiamo parlato in questo articolo ricostruendo i fatti: “L'ex manager della sua campagna elettorale, Paul Manafort, è stato condannato per 8 capi d'imputazione, di cui cinque per frode fiscale. Contemporaneamente, il suo ex avvocato personale, Michael Cohen, ha ammesso di aver violato la legge sul finanziamento della campagna elettorale con il pagamento - durante le presidenziali del 2016 - di due donne (la pornostar Stormy Daniels e l'ex coniglietta di Playboy Karen McDougal) "in coordinamento e sotto la direzione di un candidato ad un incarico federale" perché tacessero sulla loro relazione con il suo cliente, ovvero Trump”. Un doppio, duro, colpo all’immagine del presidente.
Fino a qui i fatti: oltre alle due indagini citate, su Trump continua a pesare lo spettro del Russiagate, l’inchiesta sulle presunte ingerenze russe nel corso della campagna elettorale di due anni fa. Il problema, ora, è che Cohen possa parlare testimoniare anche su questo fronte. Oltre ai guai giudiziari, la Casa Bianca guarda con attenzione al prossimo autunno quando si terranno le elezioni di mid-term: un voto che riguarda il Congresso e non direttamente il presidente, ma che può modificare gli equilibri in Parlamento tra democratici e repubblicani, oggi in maggioranza, e quindi imprimere anche un cambio negli scenari politici di più ampio respiro.
Tutti questi elementi vanno tenuti in considerazione per valutare quanto concreta sia l’ipotesi impeachment ai danni di Trump.
Quella norma che impedisce di incriminare il presidente
Le procedure di impeachment, cioè la messa in stato di accusa, sono lunghe. Il via lo da la Commissione Giustizia della camera bassa del Congresso: il voto deve venir poi confermato prima dall’intera Camera dei Rappresentanti con una maggioranza semplice, e successivamente dai due terzi del Senato. Più della metà dei parlamentari statunitensi dovrebbero perciò “sfiduciare” Trump, giudicarlo cioè colpevole di un capo di accusa. Difficile pensare che oggi possa accadere, anche perché i repubblicani controllano tutti gli organi governativi, ovvero sono in maggioranza in entrambe le camere del Congresso e presiedono anche la Casa Bianca.
The only thing that I have done wrong is to win an election that was expected to be won by Crooked Hillary Clinton and the Democrats. The problem is, they forgot to campaign in numerous states!
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) 23 agosto 2018
Chi sostiene l’impeachment ritiene che Trump si sia macchiato di una delle tre colpe cause della sfiducia, cioè “tradimento, corruzione o altri gravi crimini e misfatti”, come stabilito dall’articolo 2 della Costituzione degli Stati Uniti del 1787. Trump dal canto suo si difende, scrivendo su Twitter che “l’unica cosa fatta di sbagliato è stata vincere un’elezione che si pensava che avrebbero vinto Clinton e i democratici”. Dipende, probabilmente, da quale punto di vista Trump osserva la questione: da quello legale, in effetti, pare improbabile che l’inquilino della Casa Bianca possa venir incriminato. Lo conferma anche il Washington Post che spiega come una vecchia norma del dipartimento della Giustizia impedisca incriminazioni e processi verso il presidente a stelle e strisce. Dal punto di vista dell’impeachment, invece, la questione è diversa: presto “potrebbero scatenarsi richieste di udienze”, scrive il quotidiano della capitale.
Il fattore tempo: per i democratici è meglio aspettare l’autunno
Lo stesso Washington Post, in un altro articolo, spiega quello che potrebbe accadere a proposito dell’impeachment: la buona riuscita del provvedimento viene definito “un risultato improbabile fino a che i repubblicani detengono il Congresso, ma un potenziale punto all'ordine del giorno per i democratici qualora dovessero prendere il controllo della Camera dopo le elezioni di mid-term”. Ecco delinearsi quindi in autunno una sorta di voto indirettamente collegato proprio all’impeachment. Se i dem dovessero vincere con un certo margine, ecco che al Congresso cambierebbero gli scenari. Con la posizione di Trump che a quel punto sarebbe davvero appesa a un filo.
Anche Cnn non esclude questa ipotesi, sostenendo che “il vero pericolo per Trump non sia l’incriminazione giuridica ma la messa in stato di accusa”. Dalle colonne del New York Times, l’opinionista Brett Stephens rilancia: nell’editoriale, intitolato non a caso “I gravi crimini e i misfatti di Donald Trump”, sostiene che per procedere all’impeachment “manchi soltanto il coraggio”. “Le condizioni ci sono – scrive –; ciò che la Costituzione richiede è l'impeachment e la rimozione dall'ufficio di questo presidente senza legge”.
I numeri al Congresso: quanti dem mancano per cercare l’impeachment
Oltre che di coraggio è una questione di numeri. Oggi, alla Camera dei Rappresentanti, i repubblicani hanno una maggioranza di 37 seggi sui 435 complessivi. Al Senato oggi sono 51 a 49, ma per poter procedere all’impeachment i favorevoli dovranno essere 67, cioè i due terzi. Una prospettiva impossibile, secondo il Guardian: i sondaggi, oltretutto, indicano che gli elettori repubblicani siano più convinti a opporsi a questa ipotesi di quanto non siano favorevoli i democratici. Insomma, rispedire a casa Trump prima della scadenza, tra due anni abbondanti, a oggi pare un’impresa molto difficile.
E in Italia? Anche qui gli organi d’informazione si dividono: il Fatto Quotidiano e Linkiesta sono scettici, Panorama è più possibilista. Ma tutti sono convinti che molto dipenderà dalle elezioni di medio termine: appuntamento, allora, al prossimo 6 novembre.