Il diavolo è nei dettagli. O nei curriculum. Christopher Balding, professore della Fulbright University Vietnam, ha esaminato quelli di migliaia di dipendenti Huawei. Avrebbe scoperto così che tra Pechino e la società di Shenzhen ci sarebbe una relazione solida. Anzi, di più: “istituzionalizzata” e mirata alla raccolta di informazioni.
Il legame spunta dai curriculum
Non è certo la prima volta che si ipotizza una relazione (a oggi mai provata) tra governo e Huawei. Ma Balding ci va giù pesante. Ha ottenuto 25.000 curriculum. Con la collaborazione del think tank londinese Henry Jackson Society, li ha analizzati (non ancora tutti e non ancora a fondo) e ha notato che esisterebbe “una relazione profonda e duratura tra Huawei, i suoi dipendenti e lo stato cinese”.
L'intreccio tra la compagnia, il ministero della sicurezza, i servizi e la raccolta di informazioni sarebbe “innegabile”. In alcuni casi, l'impiego in Huawei sarebbe contemporaneo all'attività militare. E ci sarebbe “personale tecnico di medio livello” legato a “specifici casi di hacking o spionaggio industriale condotti contro imprese occidentali”.
Il documento cita un caso in cui un ingegnere informatico assunto nel reparto controllo qualità delle reti sarebbe anche un ricercatore della National University of Defense Technology (l'accademia militare dell'esercito). Questo, sottolinea Balding, non dà la certezza che l'ingegnere abbia intrecciato le due attività. Ma indica come sia, almeno in teoria, tecnicamente e materialmente capace di fare da anello di collegamento tra l'intelligence e i dati dei clienti Huawei. Un quadro che il ricercatore definisce “preoccupante” anche in assenza di prove di compromissione.
“Una relazione istituzionalizzata”
Oggi le grandi aziende tecnologiche fanno a gara per accaparrasi i migliori talenti nella cybersicurezza o nella programmazione. In Cina come negli Stati Uniti. Non è quindi raro che professionisti con un passato militare accettino l'offerta di una grande gruppo. Balding afferma – sia nel report sia in un post pubblicato per specificare alcune questioni – che “assumere ex-militari non trasforma una società in un'organizzazione dedita allo spionaggio”.
Ma sottolinea che il caso Huawei sarebbe diverso: alcuni dipendenti, “secondo i loro stessi curriculum, avrebbero operato come risorse dell'intelligence”. Per poi applicare le proprie competenze in mansioni che andrebbero “ben oltre” quelle di un “normale lavoro” di sviluppo e produzione. “In altre parole – si legge nelle conclusioni dello studio – non c'è un semplice reclutamento di personale che lavorava nell'esercito, ma c'è una chiara istituzionalizzazione” del percorso che porta dai servizi all'interno di Huawei, creando “un'organizzazione sistemica progettata per facilitare i flussi di informazioni”. Tradotto: Huawei e Pechino sarebbero due vasi comunicanti. Che poi è l'accusa mossa dagli Stati Uniti e sempre negata da Shenzhen. Un'accusa che ha radici profonde: Ren Zhengfei, il fondatore della compagnia, ha lavorato per l'Esercito Popolare di Liberazione tra gli anni '70 e '80.
Le repliche di Huawei e Pechino
Huawei ha risposto affermando che “non è in grado di verificare i curriculum dei dipendenti” e quindi “non può confermare la veridicità di tutte le informazioni pubblicate”. La società, confermando che “la sicurezza informatica è di primaria importanza”, ha spiegato che un passato militare non è un impedimento all'assunzione, a patto che “il candidato fornisca documentazione che provi come il rapporto di lavoro con l'esercito o il governo sia terminato”.
Shenzhen non rinuncia però ad ribattere: “Accogliamo positivamente relazioni sulla trasparenza di Huawei professionali e basata sui fatti. Ci auguriamo che ulteriori ricerche conterranno meno congetture, in modo da evitare speculazioni su ciò che il professor Balding 'crede', 'deduce' e 'non può escludere'”.
Più frontale è stata, per vie traverse, la risposta del governo cinese. Hu Xijin, direttore del Global Times (il giornale di Stato in lingua inglese), ha pubblicato un video-editoriale in cui definisce “ridicole” le accuse. In un periodo di grande “fluidità occupazionale”, è frequente che un ex militare lavori per imprese private. “Io stesso – afferma Hu – sono stato un soldato, in un'unità che si occupava di intelligence. Ma ho lasciato l'esercito a 29 anni e il mio lavoro oggi non ha niente a che fare con i servizi”. La ricerca sarebbe quindi “vergognosa” perché guidata solo da “scopi politici”
Perché adesso
Qualche ora dopo la pubblicazione dello studio, Balding ha scritto un post per replicare ad alcune critiche di metodo. Il professore ha specificato che non si tratta di una vera “pubblicazione accademica”. Perché, come si legge nell'introduzione del documento, ci sono “conclusioni e opinioni” che possono essere attribuite solo all'autore e non alla Fulbright University Vietnam, né alla Henry Jackson Society.
È piuttosto qualcosa di più vicino a un'inchiesta, che ha solo assaggiato l'enorme quantità di dati a disposizione: “La sola cosa che sto provando a fare è rendere le informazioni pubbliche”. I dati sono da ripulire e approfondire, ma comunque di pregio perché “testimonianze dirette dei dipendenti Huawei”.
Se autentici, sono i curriculum scritti dai lavoratori, che non avrebbero avuto alcun interesse a mentire. Balding ammette anche che una ricerca più approfondito su tutti i curriculum sarebbe necessaria ma avrebbe richiesto 6-12 mesi. E allora perché non ha aspettato? Perché “in questo momento gli Stati stanno prendendo decisioni cruciali che riguardano Huawei”. E hanno quindi bisogno di sapere. Anche senza il rango di “pubblicazione accademica”, quanto emerso – afferma il professore - “contraddice le dichiarazioni pubbliche di Huawei, che hanno sempre negato rapporti con i servizi”. Per essere ancora più chiaro: “Huawei mente”.