Come si dice nel gergo politico britannico, “let the battle be joined”, che lo scontro abbia inizio. Tra sei mesi esatti scadono i tempi per trovare un accordo con Bruxelles, poco è stato concluso fino ad ora e nel partito conservatore scatta l’offensiva di chi vuole due cose: l’hard Brexit e, insieme all’uscita dall’Ue, anche l’uscita di Theresa May da Downing Street.
La guerra di Boris
Non è un caso che, nel giorno della riapertura ufficiale del Parlamento di Westminster, Boris Johnson attacchi il governo (di cui ha fatto parte fino a due mesi fa) dalle colonne del giornale cui deve tanta parte del suo successo politico: il Daily Telegraph.
“Suona la campana, fuori i secondi, inizia il round decisivo”, scrive l’ex ministro degli esteri, “e facciamoci poche illusioni, finirà inevitabilmente con la vittoria di Bruxelles, con il Regno Unito al tappeto mentre dodici stelline gli girano intorno alla testa”.
Un bilancio deprimente
Risponde l’ufficio del Primo Ministro: dove sono le idee nuove per affrontare in modo alternativo la situazione? In effetti, quella di Johnson sembra più un’invettiva giornalistica che un progetto politico. E se anche Theresa May pare essere a corto di intuizioni, la sua forza politica sta tutta in questa risposta.
Il premier, infatti, ha alle sue spalle una serie di risultati negativi, a cominciare dall’esito quasi disastroso delle elezioni del giugno 2017: doveva vincere facile, finì che si fece recuperare 10 punti su 13 di vantaggio dal Labour. Voleva la maggioranza assoluta e schiacciante, ora è costretta ad una difficile coalizione con gli unionisti nordirlandesi del Dup.
La cosa non è rimasta senza conseguenze, se è vero che adesso uno dei nodi più difficile da sciogliere nel complesso negoziato con l’Ue è proprio quello del confine tra le due Irlande, che si vorrebbe mantenere nel quadro di – sublime paradosso – un’unione doganale con l’Unione. Lo stesso paradosso insito nella pretesa di coniugare, con l’accordo di Bruxelles naturalmente, la libera circolazione delle merci da e per il Continente, imponendo al tempo stesso la possibilità per Londra di imporre dazi e controlli alla frontiera sulle persone e sui servizi. Cosa impossibile, se è vero che una serie di grandi multinazionali hanno portato via da Londra le loro sedi.
Gli insuccessi di May (detta “La Signora Maybe” per la sua irresolutezza) non sono solo quelli riguardanti l’uscita dall’Europa o le recenti elezioni politiche. Si tratta anche del modo maldestro in cui è stata gestita la tragedia della Greenfell Tower, il grattacielo di Londra andato a fuoco un anno fa, o anche il tentato rimpasto di governo dello scorso luglio.
Una poltrona per due
Eppure più che un morto che cammina, secondo l’Economist il primo ministro è un morto che riesce a stare in piedi. Nel senso che non cadrà finché non verrà trovato un sostituto autorevole e rispettato. E qui comincia il difficile per il Partito Conservatore.
Secondo le regole del partito, che sono molto rigide, in caso di defenestrazione il gruppo parlamentare sarà chiamato ad indicare due nomi, e non di più. Con ogni probabilità si tratterà di un esponente dell’area favorevole alla soft Brexit ed uno della fazione che pende per l’hard Brexit. Dato che la seconda componente è largamente maggioritaria, il prossimo premier potrebbe essere comodamente Boris Johnson stesso, che a questo lavora da tempo, o al massimo l’emergente Jacob Rees-Mogg.
Il secondo è considerato inesperto, il primo persino troppo esperto in tante cose, ma non nell’arte di portare la Gran Bretagna lontana dal Vecchio Continente senza scossoni e senza conseguenze. E più si avvicina la data del prossimo marzo, più aumentano le analisi catastrofiche sugli effetti della hard Brexit.
I dubbi del Labour
Il timore di una serie di effetti collaterali incalcolabili sta lentamente facendosi strada nelle menti che elaborano la politica a Westminster e dintorni. Tanto che anche il Partito Laborista, guidato da un Jeremy Corbyn di per sé euroscettico, sta ammorbidendo a riguardo le sue convinzioni, fino a giungere a soppesare l’eventualità di un altro referendum.
È la pubblica opinione, stupido
Perché al fondo di tutto c’è un dato di fatto: la vittoria del Leave, due anni fa, su di stretta misura. Ed oggi quel risultato forse non sarebbe ripetibile. Alla luce di questo, un Johnson premier avrebbe la stessa autorevolezza di cui oggi gode la May. A questo punto, perché cambiare? E Theresa resta a Downing Street.