Pur colti con le mani nel sacco nel giro di poche settimane, gli hacker – presumibilmente russi – che hanno tentato di rubare i dati di alcune fondazioni conservatrici americane il loro risultato potrebbero averlo ottenuto: frantumare ulteriormente i canoni della politica a Washington e dintorni.
Domini falsi, hacker veri
L’allarme è stato lanciato nei giorni scorsi da Microsoft: ci sono sei domini falsi che hanno compiuto operazioni di phishing a danno di una serie di think tank a stelle e strisce. In altre parole: si sono inseriti nei loro siti, fatto comparire false pagine di richieste di dati e rubato un tesoretto più o meno grande in termini di parole chiave, gusti personali, indirizzi.
Tutto quello che può servire se, è il sospetto, si desidera indirizzare in un senso o in un altro il consenso di una parte consiste te dell’opinione pubblica statunitense. A novembre, ricordiamoci, ci sono le elezioni di metà mandato, appuntamento tradizionalmente fondamentale per misurare il gradimento nei confronti del presidente in carica.
Donald ora teme davvero il Russiagate
Questa volta poi si tratterà probabilmente di un verdetto definitivo, in un senso o nell’altro, nei confronti di un Donald Trump sempre più avviluppato nelle spire del Russiagate.
Apparentemente le ultime scoperte, che hanno fatto seguito agli allarmi lanciati lo scorso luglio dopo la condanna da parte di un tribunale americano di 12 spie russe che avevano hackerato i siti del Partito Democratico, hanno compattato un fronte unico di esponenti dei due partiti all’interno del Senato.
Le crepe dei distinguo
I democratici e quasi tutti i repubblicani si sono detti favorevoli all’imposizione o di sanzioni immediate e dirette, o di una legge che comunque indica nel Cremlino il mandante delle intromissioni. Provvedimenti, si noti, bipartisan. Ma dietro questa unitarietà di facciata, rafforzata dall’andamento dei lavori in tre distinte commissioni senatoriali, si aprono le crepe dei distinguo.
Non si tratta solo della difficoltà nel calendarizzare il dibattito in una sessione dei lavori parlamentari, quale quella autunnale, già ingolfata e influenzata dall’andamento dell’imminente campagna elettorale. Il fatto è che soprattutto all’interno del Grand Old Party non tutti sono d’accordo nel fare il muso duro con Vladimir Putin, a partire da un Trump che si è visto con la controparte russa appena un mese fa, al vertice di Helsinki.
A cosa realmente mirano gli hacker
Poi, andando a guardare chi sia stato oggetto degli attacchi informatici russi, si capiscono altre, interessanti, cose. Si tratta di sei fondazioni, di due delle quali si conosce anche il nome: l’Hudson Institute e l’International Republican Institute. Entrambi pilastri del pensiero conservatore di tradizione kissingeriana, che poco ha avuto a che spartire con i neocon dell’epoca di George W. Bush come anche con l’ala populista e trumpiana del partito. Studiosi che hanno come punto di riferimento il senatore John McCain.
Fino alla fine dei tempi
Quest’ultima, non a caso, nicchia. Prende tempo, instilla dubbi. Per tutti parla Rand Paul, senatore del Kentucky e convinto sostenitore della bontà dell’approccio trumpiano nelle relazioni con Mosca. “Le sanzioni non servono”, spiega, “perché pensare che otterremo con le sanzioni l’abbandono della Crimea da parte dei russi vorrebbe dire attendere fino alla fine dei tempi”.
Per vedere una politica americana unita nei confronti del Cremlino forse bisognerà aspettare altrettanto. O forse solo fino alle elezioni di metà mandato.