Al culmine dell’escalation fu “il fuoco e la furia” contro “il piccolo Rocket Man”. Oggi il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, si dice “impaziente” di incontrare il leader nord-coreano, Kim Jong-un, nel summit più atteso dell’anno, di cui ancora non si conosce la data precisa (entro l’inizio di giugno) né il luogo in cui si terrà.
Molto dipenderà dall'esito del terzo summit inter-coreano sul 38esimo parallelo il prossimo 27 aprile, che potrebbe portare a un trattato di pace con la Corea del Sud. Il rapporto a distanza tra l’inquilino della Casa Bianca e il leader di Pyongyang si è flessibilmente adeguato alle fasi di escalation e successiva de-escalation missilistica e nucleare della Corea del Nord.
Sembra che Donald Trump e Kim Jong-un - non più il dittatore pazzo ma uno stratega con cui tutti i leader mondiali vogliono parlare - siano passati all'improvviso dalla gara di pulsanti nucleari ai segnali di distensione.
“Con le Olimpiadi Invernali si è creata una finestra di opportunità che ha reso possibile il ripristino del dialogo tra le due Coree: la leadership nordcoreana ha colto l’occasione per mettere a frutto le strategie di Kim, ma la pietra angolare è stata un’altra”. A parlare all’Agi è Antonio Fiori, professore associato di storia e istituzioni dell’Asia all'università di Bologna, autore de Il nido del falco: mondo e potere in Corea del Nord (Le Monnier, 2016).
“Il regime di Pyongyang - ha detto Fiori - ha raggiunto il massimo grado di avanzamento tecnologico militare. Kim non ha ripristinato il dialogo con la comunità internazionale per liberarsi dalla morsa delle sanzioni, che non è vero che hanno causato una catastrofe economica (i dati registrano una ripresa in linea con gli ultimi anni): avendo ottenuto uno status nucleare compiuto, il leader nordcoreano ha ritenuto che fosse giunto il momento di riaprire il tavolo delle trattative. Del resto le grandi potenze nucleari non hanno bisogno di testare. E attenzione: Kim ha annunciato lo stop ai test missilistici e lo smantellamento del sito nucleare di Punggye-ri, non ha detto che abbandonerà il nucleare".
Fiori lo aveva orecchiato da tempo, anche nei momenti di massima tensione per i lanci missilistici. Come anticipato più volte a Radio Radicale, il professore bolognese ha sempre sostenuto che una volta concluso il ciclo di avanzamento tecnologico e militare, i nordcoreani si sarebbero trovati nelle condizioni di porsi come interlocutori in un dialogo sia con la Corea del Sud sia con gli Stati Uniti. Scenario che si è puntualmente verificato.
"Trump - ha detto Fiori - è convinto che siano state le pressioni imposte alla Corea del Nord a convincere Kim a fermare i test missilistici e a sedersi al tavolo delle trattative, dove il presidente americano spera di avanzare una serie di richieste, sicuro che Pyongyang le accetti. Io non sono per niente certo che il summit con Trump ci sarà: molto dipende dall'esito del vertice inter-coreano”.
I testi di Kim: escalation improvvisa
I toni, già surriscaldatisi a marzo 2017, si sono arroventati ad agosto scorso, dopo il lancio dei primi due missili balistici intercontinentali da parte di Pyongyang. Dall’agenzia di stampa nord-coreana, la Korean Central News Agency, era arrivata la pesantissima minaccia del regime, che si diceva pronto a colpire le acque nei pressi della base militare Usa di Guam, nell’Oceano Pacifico, intorno alla metà di agosto. Pyongyang, fu la risposta a stretto giro di posta di Trump, affronterà “un fuoco una furia che il mondo non ha mia visto prima”, se intenderà davvero mettere in atto il suo piano distruttivo.
Parole durissime, che lasciavano presagire uno scontro militare di mezza estate, sul quale la Cina, con un non troppo complicato giro di parole, aveva già le idee chiare: se sarà la Corea del Nord a colpire per prima, scriveva in un editoriale l’influente Global Times, Pechino rimarrà neutrale, se saranno gli Stati Uniti e la Corea del Sud a colpire per primi, sarebbe accorsa in aiuto di Pyongyang.
Il durissimo discorso di Trump all'Onu (settembre 2017)
L’escalation verbale avrebbe toccato il punto più alto di lì a poche settimane, dopo il sesto test nucleare di Pyongyang, in occasione del discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del presidente Usa. “Little Rocket Man”, come Trump aveva già preso a definire Kim su Twitter, è impegnato in una “missione suicida” per sé e per il suo popolo. Trump è uno “squilibrato” e “pagherà a caro prezzo” le minacce rivolte alla Corea del Nord, fu la risposta di Kim.
Se possibile, il rapporto tra Washington e Pyongyang si era deteriorato ulteriormente rispetto a solo poche settimane prima, tanto che neppure il ministro degli Esteri nord-coreano, Ri Yong-ho, inviato di Pyongyang a New York per l’Assemblea Generale dell’Onu (e su cui alcuni nutrivano speranze per una ricomposizione della crisi) era riuscito a fare nulla, anzi: la Corea del Nord, furono le sue parole, sta valutando la possibilità di sganciare una bomba all’idrogeno nell’oceano Pacifico.
Gli effetti delle sanzioni commerciali
Dopo questa fase, a parlare furono soprattutto le risoluzioni dell’Onu e le sanzioni che prendevano di mira in maniera specifica le modalità di approvvigionamento economico della Corea del Nord: forse ancora più dure per il regime degli scambi di insulti tra Trump e Kim furono le restrizioni sul commercio varate dalla Cina, che a settembre scorso avevano preso di mira le esportazioni di derivati del greggio, a cui venne imposto un tetto, e le imprese nord-coreane presenti in Cina, anche in joint-venture con gruppi locali, costrette a chiudere entro l’inizio del 2018.
Ci fu ancora spazio per l’ultimo lancio di un missile balistico intercontinentale, il 29 novembre scorso, alle prime ore del mattino, ora locale: lo Hwasong-15, evoluzione della tecnologia missilistica di ultima generazione a disposizione di Pyongyang, fu l’ultima minaccia del regime, prima della distensione con la Corea del Sud sfociata nella partecipazione di una delegazione nord-coreana alle Olimpiadi Invernali di Pyeongchang.
La svolta ai Giochi olimpici invernali in Corea del Sud
Il rapporto non si era ancora disteso, come dimostrò la scortese freddezza del vice presidente Usa, Mike Pence, nei confronti della delegazione nord-coreana alla cerimonia di apertura dei Giochi. Trump, riconoscendo il ruolo di Seul nel disgelo diplomatico con il Nord, aveva aperto alla possibilità di coinvolgere Pyongyang in colloqui sulla denuclearizzazione, durante un colloquio telefonico con il presidente sud-coreano, Moon Jae-in, che sempre in quella conversazione, aveva preannunciato l’invio nella capitale nord-coreana di un suo inviato speciale, il consigliere per la Sicurezza Nazionale di Seul, Chung Eui-yong.
Dopo il viaggio a Pyongyang, Chung tornò in Corea del Sud e dichiarò che la Corea del Nord era pronta alla denuclearizzazione prima di prendere nuovamente un aereo, questa volta diretto a Washington, con un messaggio per il presidente degli Stati Uniti: Kim voleva incontrarlo, e Trump acconsentì allo storico summit. Prima di incontrare Trump, Kim, a digiuno di esperienze diplomatiche all’estero, si era recato in segreto a Pechino per una visita “obbligata”, come la definì, al maggiore alleato di Pyongyang. Al presidente cinese, Xi Jinping, aveva manifestato la volontà di abbandonare le armi nucleari. “Ora ci sono buone probabilità che Kim Jong-un faccia quello che è giusto per la sua gente e per l’umanità”, ha scritto su Twitter il presidente Usa, chiamando il leader nord-coreano con il suo nome. “Attendo impaziente il nostro incontro”.
La tensione diplomatica può dirsi conclusa?
Oggi Pyongyang è entrata in una “nuova fase”, scriveva giovedì scorso la Kcna, annunciando l’assemblea plenaria del Partito dei Lavoratori guidato da Kim, da cui sarebbero scaturiti lo stop ai test missilistici e nucleari e la chiusura del sito di Punggye-ri, dove il Nord ha condotto tutti i suoi sei test nucleari. La scelta del regime, aveva scritto Trump su Twitter alla diffusione della notizia, “è un progresso per tutti”, ma l’iniziale entusiasmo che aveva preso il posto del fuoco e della furia, sembra sostituito, nelle ultime ore, da una più distaccata diffidenza, in attesa degli eventi. “Siamo lontani dalla conclusione con la Corea del Nord”, ha scritto ieri il presidente Usa in uno dei tweet dedicati alla questione nord-coreana. “Forse le cose funzioneranno, forse no. Solo il tempo lo dirà”.
Trump è caduto nella trappola di Kim
Trump fa bene a moderare l'entusiasmo: il presidente americano, secondo Antonio Fiori, ha commesso un errore strategico (come anticipato nell’intervista a Lettera 43 e sul Manifesto in edicola). “E’ caduto nella trappola ordita da Kim", ha spiegato il professore. "Ha sbagliato ad accettare subito l’invito a sorpresa del leader nordcoreano per un faccia a faccia senza porre come pre-condizione la prova che il regime fosse intenzionato a smantellare il suo arsenale. Così facendo, Trump si è messo a disposizione di Kim".
Non solo. Ha mandato a Pyongyang Mike Pompeo, il direttore della Cia e segretario di Stato Usa in pectore, per preparare l’incontro. "In altre parole, ha accettato le condizioni imposte tra le righe dai nordcoreani, mettendosi sullo stesso livello di Kim", ha detto Fiori.
Moon il "diplomatico illuminato"
A un passo dal ricevere Kim Jong-un sul 38esimo parallelo, alla Casa della Pace di Panmunjom, prima volta che un leader nordcoreano metterà piede al Sud, il presidente sudcoreano Moon Jae-in è “gigantesco”, dice Fiori. E’ stato eletto alla Casa Blu solo 12 mesi fa, quando il Time lo aveva definito “The Negotiatior”, e oggi può sfoggiare un risultato politico su cui pochi avrebbero scommesso. Un “diplomatico illuminato”, che gode di ampio consenso, soprattutto dalla sua frangia politica, nonostante le critiche delle forze conservative del Paese e la ritrosia dell’opinione pubblica che non sempre condivide il suo obiettivo sulla riconciliazione. “Sul vertice del 27 aprile Moon si sta giocando la carriera politica”, dice Fiori.
“Se le due Coree arriveranno a un trattato di pace, superando l’armistizio del 1953, non si assisterà a un cambiamento dell’assetto politico ma si otterrà un importantissimo risultato simbolico, che potrebbe rinverdire le relazioni bilaterali, alimentando la cooperazione economica e le interazioni politiche dirette, senza passare attraverso il filo del telefono rosso”, ha sottolineato.
Trump con il cerino in mano
“Trump si dice gioioso che le due Coree vadano verso un trattato di pace - ha detto il professore - ma al di là delle dichiarazioni pubbliche, nei dialoghi diplomatici tra Seul e Washington leggo tra le righe uno scollamento: non so fino a che punto ci sia una condivisione di obiettivi”.
In altre parole, un trattato di pace consentirebbe a Pyongyang di avere dalla sua Cina, Russia e Corea del Sud. Lasciando gli Stati Uniti con il cerino in mano
“Non vorrei apparire come il cospirazionista di turno”, dice Fiori, “ma c’è un aspetto che sfugge”. Quale? “Mettiamo in fila i fatti. Le due Coree che si incontrano il 27 aprile. Kim che va a Pechino in gran segreto, ricevuto da Xi Jinping, il quale vuole andare presto a Pyongyang per restituire l’omaggio. Lavrov che un giorno sì e l’altro pure manda inviti a Pyongyang volti a ottenere una visita di Kim a Mosca, che in quel caso sarebbe ricevuto da Putin. Il summit tra Kim e Trump che dovrebbe svolgersi entro giugno, ammesso che non abbia esito negativo".
Quindi? "Nella strategia diplomatica di Kim che tesse contatti con i vicini regionali - elabora Fiori - leggo il tentativo di crearsi una via d’uscita nell’eventualità che il summit con gli americani si risolvesse in un nulla di fatto o che Trump possa porre una serie di paletti per la ripresa del dialogo, senza alcun beneficio per i rapporti con Washington. Se Pyongyang si incunea nelle relazioni tra Usa e Corea del Sud, la partita con gli americani si fa molto più complicata; se Pyongyang si insinua in una relazione già sfibrata come quella tra Mosca e Washinton, rischia di diventare una scheggia impazzita; se i cinesi dicono che i rapporti con Kim filano lisci, si crea un elemento di ulteriore criticità tra Washington e Pechino”.
Attenzione poi a quello che Kim omette di dire. “Il leader nordcoreano non ha speso una parola sui 28mila soldati americani in stanza a Seul; non una parola sull’eventuale blocco delle esercitazioni militari congiunte tra Washington e Seul. Sono questioni che vuole tirare fuori dopo o che non gli interessano più? E’ probabile che una volta firmato un trattato di pace, le esercitazioni militari non abbiano più senso”.
Xi Jinping ha riaffermato la centralità della Cina
Nessuna interferenza, invece, tra la questione coreana, rispetto alla quale Pechino e Washington hanno voci dissenzienti, e le tensioni sui dazi. “Xi Jinping è bravissimo a tenere distinte le due situazioni”.
"La Cina ha giocato la partita con grande intelligenza: Xi è un attore strategico di primo livello", elabora Fiori. "Nonostante lo sfilacciamento dei rapporti con il regime nordcoreano, Pechino non poteva accettare di essere marginalizzata. Credo che Xi abbia rivolto a Kim un invito molto forte che il leader di Pyongyang non era nella posizione di respingere. Kim ne è uscito pulitissimo: le immagini della propaganda hanno posto a suo favore una visita che gli era stata probabilmente imposta dal leader cinese. Non credo che Xi abbia trasferito a Kim riferimenti in merito al summit con Trump: difficile credere che vi sia una strategia congiunta tra i due Paesi. La Cina ha voluto riaffermare di essere un attore centrale sulla Corea del Nord".