Sono oltre 300 i morti dell'Everest, su 4.800 scalatori che hanno affrontato la sfida per conquistare il tetto del mondo; i resti della maggior parte degli alpinisti che hanno perso la vita si trovano ancora sulla montagna, coperti da neve e ghiaccio, e in alcuni casi spesso 'aiutano' altri colleghi a seguire un percorso e a orientarsi rispetto alla cima da raggiungere, a oltre ottomila metri.
Il recupero dei corpi degli scalatori deceduti rappresenta una sfida per le autorità governative e le associazioni competenti sia sul versante cinese che su quello nepalese.
Si tratta di operazioni complesse: riportare a valle un corpo senza vita ha un costo molto elevato, che varia tra 40 e 80 mila dollari, in base all’altitudine e al punto in cui viene rinvenuto.
Ma è anche un'impresa rischiosa, che richiede una missione di almeno otto sherpa, anche in considerazione del fatto che un corpo di 80 chilogrammi ne pesa mediamente 150 quando è ghiacciato.
Gli scarponi verdi di Paljor
I corpi più "antichi" rimasti sull’Everest si trovano lì dagli anni '20 del Novecento, quando ci furono le prime spedizioni per cercare di raggiungere la vetta. La maggior parte, però, risale agli anni '80, quando il monte iniziò a diventare una meta turistica. Corpi di sherpa e alpinisti si trovano ovunque, nei crepacci, sepolti sotto valanghe, visibili lungo i pendii.
Uno dei cadaveri più famosi è quello di Tsewang Paljor, alpinista indiano morto a 28 anni nella tempesta del 1996, la cui storia è raccontata nel film "Everest", uscito in Italia nel 2015.
Paljor è morto indossando degli scarponi verdi ed è conosciuto come “Green Boots”.
Nei periodi in cui c’è poca neve i suoi scarponi verdi sono diventati un punto di riferimento per gli alpinisti che talvolta hanno dovuto passare sopra le sue gambe nel loro percorso verso la vetta a 8.848 metri.