L'Everest si sta trasformando in un cimitero di alpinisti: gli ultimi due a perdere la vita nel corso della conquista del tetto più alto del mondo sono stati un britannico e un irlandese. Il britannico "ha raggiunto la cima, ma è svenuto ed è morto 150 metri più giù", ha spiegato Murari Sharma della Everest Parivar Expedition. L'irlandese è morto sul fianco tibetano della montagna. Il bilancio complessivo delle vittime dell'Everest è stato, questa settimana, di 10 morti.
Gli organizzatori delle spedizioni per gli scalatori che, con la bella stagione, hanno preso d'assalto la montagna più alta al mondo, nei giorni scorsi avevano comunicato il crescente numero di morti sulla montagna. Un affollamento che ha cerato veri e propri ingorghi per arrivare in vetta, con gente costretta ad attendere oltre due ore sopra gli 8 mila metri di altezza. Dopo la morte di un americano 55enne, Donald Lynnn Cash, è stato confermato il decesso di due indiani.
La zona della morte
A rivelarsi fatale per gli alpinisti è la "zona della morte", oltre 8.000 metri, dove la respirazione polmonare non basta più a mantenere in vita un organismo. A metà maggio una squadra di otto alpinisti nepalesi ha tracciato un nuovo percorso, ma ad aprire realmente la strada verso la cima, però, sembra essere un business legato alle autorizzazioni alla scalata rilasciate per la stagione primaverile, finestra (da fine aprile a fine maggio) ottimale dal punto di vista meteorologico, dalle autorità nepalesi.
Finora sono 381 i permessi, del costo di 11.000 dollari ciascuno; inoltre, ciascun alpinista deve essere accompagnato da uno sherpa, e così si arriva a un numero di 762 persone in fila per raggiungere gli 8.850 metri, con conseguenze che fanno pensare più a una gita domenicale di massa che a un'impresa d'impronta pionieristica: ad aprile scorso tre tonnellate di immondizia lasciate dagli scalatori furono rimosse dalla montagna, e tra esse vi erano attrezzi per l'arrampicata, bombole di gas e escrementi.