È come per il bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Dipende dai punti di vista. Da come lo si osserva. Quindi certo, “La Spagna è socialista, ma spunta l’ultradestra” come titola la Repubblica, che “rientra in Parlamento” come sottolinea Il Messaggero. Oppure, come prende atto Il Fatto Quotidiano semplicemente “Sanchez argina l’ultra-destra ma si deve alleare coi separatisti”. Oppure, ancora, per la Spagna è “la prima volta dell’ultradestra” come evidenzia Il Giornale.
Difficile trovare una sintesi convincente nell’esito del voto uscito dalla lunga notte spagnola e dagli equilibri che ne usciranno. Perché formare il governo nella penisola iberica resta “un rebus”. Così Aldo Cazzullo, inviato a Madrid per il Corriere della Sera, trova la chiave di lettura in questo parallelismo: “Il separatismo catalano è stato l’arma di Abascal. Ma Abascal è stato l’arma di Sánchez, cha ha potuto evocare l’ombra di Franco, in un Paese che di Franco ha un giudizio certo più severo di quello che l’Italia ha di Mussolini; forse perché dalla morte del Caudillo è passato meno tempo che da quella del Duce”.
In questo quadro, sì, “vince il partito socialista di Sánchez, è vero”, come scrive Concita De Gregorio in Spagna per la Repubblica, “un successo personale dell’uomo che in maniche di camicia ha sgominato chi lo voleva morto, il Psoe storico di Felipe González e di Susana Díaz, la zarina andalusa sconfitta”. Ma è pur vero, anche, che “vincono gli indipendentisti catalani, il nemico pubblico numero uno della destra e invece guarda: vincono i leader in carcere e in esilio. Vince Vox, il nuovo cavallo della rabbia sociale, il purosangue di destra a cui Salvini augurava ieri il massimo successo. E però nessuno può governare, perché crolla il Partito Popolare dello scialbo Pablo Casado, il cartonato che il vecchio presidente Aznar aveva messo al suo posto. Ciudadanos, la civica liberale di centro con anima a destra, anche questa una creatura di Aznar, resiste più o meno al suo posto, in percentuale, ma in virtù del sistema elettorale cresce in seggi”.
Todos caballeros? No, perché la verità del quadro spagnolo uscito dalle urne è che fra destra e sinistra “è stallo”. Un “pareggio tecnico”. Perché nessuno dei due blocchi supera i 170 seggi e nr servono 176. Quindi la Spagna è una mela perfetta, divisa a metà. Forse si salva solo dal populismo, ciò che può confortare o meno se si guarda all’orizzonte europeo fissato nel traguardo del voto del 26 maggio. Ma non si va oltre.
“Quindi, riassumendo molto: a nessuno dei due schieramenti bastano i voti” scrive ancora la Repubblica. “Baschi o catalani che siano, i nazionalisti servono alla sinistra per governare. A dispetto dell’incessante campagna della destra sull’hispanidad, la Spagna una santa cattolica e apostolica. In direzione ostinata e contraria rispetto all’odio seminato dalle camicie brune neofranchiste contro i federalisti, gli indipendentisti che parlano altre lingue, i sediziosi referendari, il risultato è questo: i “golpisti” catalani in carcere hanno salvato ieri la Spagna da un governo di estrema destra, spinto dall’esplosione di Vox. Esquerra republicana, il partito catalano capitanato da Oriol Junqueras, leader in carcere, e Junts per Catalunya, la formazione del presidente catalano “in esilio” Puigdemont, sono le uniche tra le formazioni tradizionali che guadagnano seggi: 8 o forse 9 seggi, moltissimi per due partiti regionali. Il successo dei catalani è un dato politico rilevantissimo, con il processo ai detenuti in corso”.
Se poi vogliamo allargare lo sguardo e continuare con parallelismi, similitudini o con il gioco degli opposti, fa osservare il Corriere, “Sánchez rivendica un ‘trionfo storico del partido socialista obrero espanol’: mentre la sinistra crolla in tutto il mondo — Lula in galera, i democratici americani aggrappati ai settantenni, l’Spd sotto i piedi della Merkel, i socialisti francesi estinti, il Pd lasciamo perdere —, in Spagna si prepara a tornare al governo. Il Psoe torna primo partito, con il doppio dei deputati rispetto ai popolari. Gli ex rivoluzionari di Podemos, divenuti alleati minori, tengono. In Catalogna perde il partito dell’esule Carles Puigdemont, che sotto sotto si augurava una vittoria della destra, nella speranza di rompere con Madrid. Vincono i repubblicani di sinistra dell’Erc; il loro leader Oriol Junqueras è in galera, dove in mancanza di un accordo politico, indulto compreso, rischia di passare il resto dei suoi giorni; un buon motivo per trovare un’intesa. La straordinaria mobilitazione della Catalogna ha mandato un messaggio chiaro: lo stallo non giova a nessuno; la tensione permanente non durerà in eterno”.
Per la Spagna è il terzo appuntamento con le urne in quattro anni, dal 2015. Così se “il successo di Sanchez conforta gli europeisti”, come titola La Stampa un’analisi nelle pagine interne, è pur vero che “con le elezioni europee alle porte, Bruxelles e le altre capitali guardavano ansiosamente alla Spagna, con i suoi 46 milioni circa di abitanti, come prova generale dell’attesa sfida delle forze anti-sistema ai partiti tradizionali. Le peculiarità spagnole (leggi: Catalogna) più l’alta affluenza alle urne, che difficilmente si ripeterà alle europee, impediscono di farne un paradigma veramente indicativo degli umori dell’intero elettorato Ue” anche se, alla fin fine, “il successo socialista è l’unico dato confortante per le forze europeiste; lezione da trarne: il potere non corrompe quando usato bene. Per il resto il panorama è tutt’altro che rassicurante, specie sotto il profilo della governabilità”.
Guardano all’Europa, guardando al 26 maggio, Il Giornale si chiede: “Il successo, più o meno relativo, delle forze sovraniste e populiste in Europa potrà avere come effetto quello che gli stessi sovranisti e populisti si augurano, e cioè una rivoluzione negli equilibri politici a Bruxelles che cambi il volto dell’Europa quale oggi lo conosciamo?”. E la risposta qual è? “A tutt’oggi, sembra un chiaro no”, perché “la Spagna non solo dovrebbe confermarsi come uno dei Paesi europei che inviano a Bruxelles gruppi più forti di rappresentanti dei partiti tradizionali, ma anche conseguire grazie a questo maggior peso per il proprio Paese soprattutto all’interno delle frazioni europarlamentari socialista e liberale”.
Nella estrema sintesi che ne fa il filosofo Massimo Cacciari in un’intervista a la Repubblica, “la sinistra vive” perché “le forze dell’antipolitica non sanno governare”. Varrà per l’Italia e anche per l’Europa quel che sembra valere per la Spagna?