La “più grande guerra commerciale della storia dell’economia”, come la ha definita il Ministero del Commercio di Pechino, è ufficialmente cominciata il 6 luglio scorso, ma lo scontro sul commercio tra Cina e Stati Uniti è in corso ormai da tempo. Da almeno un anno, secondo una nota diffusa ieri dallo Us Trade Representative, Robert Lighthizer, nel quale gli Usa hanno cercato “pazientemente” di convincere Pechino ad abbandonare quelle che vengono definite “pratiche commerciali ingiuste”, ma con un inasprimento a partire dalle prime settimane del 2018.
Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, vuole riequilibrare il commercio con la Cina, dopo il deficit commerciale di 375 miliardi di dollari totalizzato nel 2017. Secondo i dati relativi al primo semestre del 2018 pubblicati dall’Amministrazione Generale delle Dogane cinese, l’interscambio tra le prime due economie del pianeta è già in fase di rallentamento: le esportazioni verso gli Usa sono cresciute solo del 5,4%, contro un aumento del 19,3% nello stesso periodo dell’anno precedente, con un divario ancora più accentuato nel mese di giugno, quando le esportazioni sono cresciute del 3,8% contro una crescita del 27,6% registrata a giugno 2017. Dati che, hanno commentato i primi analisti, risentono delle forti tensioni con gli Usa.
L'origine della guerra commerciale aperta
Gli inizi di quella che oggi viene considerata come una guerra commerciale aperta da Pechino risalgono al mese di gennaio, quando l’amministrazione Usa aveva lanciato dazi sui pannelli solari e sulle lavatrici importati, per un valore complessivo di merci importate dalla Cina di poco superiore ai 3,5 miliardi di dollari, secondo stime pubblicate oggi dal New York Times basate sui dati dell’interscambio Cina-Usa dello scorso anno. Lo scontro si acuì alcune settimane più tardi, all’inizio di marzo, con la decisione di imporre dazi al 10% sulle importazioni di acciaio e al 25% sulle importazioni di alluminio sulla base di preoccupazioni di sicurezza nazionale. La Cina rispose alla mossa (che inizialmente escludeva Unione Europea, Canada e Messico) imponendo tariffe su tre miliardi di dollari di merci importate dagli Stati Uniti.
La disputa sul commercio, che stava assumendo toni sempre più accesi tra Washington e Pechino ha avuto una parziale pausa con l’inizio dei colloqui tra le delegazioni dei due Paesi: i negoziati proseguirono per alcune settimane, e si aprirono a Pechino con la visita della delegazione guidata dal segretario al Tesoro Usa, Steve Mnuchin, che ha incontrato il vice premier cinese, Liu He, il principale consigliere economico del presidente, Xi Jinping. Dai colloqui emersero posizioni divergenti, e solo in un secondo round di negoziati, a Washington, le due parti diedero segnali di una potenziale intesa, per quanto estremamente generica: la Cina si impegnava a comprare più beni dagli Stati Uniti, ma senza indicare una cifra precisa, e i giornali di Pechino si affrettarono a specificare nei giorni successivi, che gli acquisti sarebbero stati fatti in base alle esigenze di sviluppo della Cina.
Le posizioni rimangono distanti
Troppo poco e forse troppo tardi per Trump e per l’amministrazione Usa, che già ad agosto scorso aveva avviato indagini sulle possibili violazioni di proprietà intellettuale da parte della Cina in base alla sezione 301 dello Us Trade Act del 1974: nel mirino dell’azione investigativa condotta dallo US Trade Representative c’erano soprattutto i prodotti tecnologici che rientrano nel piano di sviluppo del settore manifatturiero cinese, il Made in China 2025, varato dal governo cinese nel 2015. Il mese scorso scorso l’amministrazione Usa varò una lista di oltre 1300 prodotti, per un valore complessivo di cinquanta miliardi di dollari, che sarebbero stati soggetti a tariffe del 25%: le tariffe per una gran parte di questi - 818, per un valore complessivo di merci pari a 34 miliardi di dollari - sono entrate in vigore proprio il 6 luglio scorso.
Come contromisura, Pechino aveva preparato una lista di 545 prodotti importati dagli Usa che sarebbero stati soggetti a tariffe al 25% per un valore complessivo identico: 34 miliardi di dollari. I dazi cinesi sono stati attivati un minuto dopo l’entrata in vigore delle tariffe statunitensi: la Cina, aveva dichiarato pochi giorni prima il Ministero del Commercio di Pechino in una nota diffusa on line, “non sparerà il primo colpo” nella guerra commerciale.
Lo scontro sul commercio appare lontano dal dirsi concluso. Settimana scorsa, mentre si trovava nel Montana, Trump aveva aperto a nuovi dazi su un valore complessivo di merci importate dalla Cina pari a 500 miliardi di dollari: duecento miliardi subito, e gli altri trecento miliardi in un secondo momento, aveva detto. Con la nuova offensiva lanciata ieri, l’amministrazione Trump si concentrerà su beni di largo consumo, e in prospettiva, la mossa potrebbe avere un impatto su circa il 90% delle merci esportate da Pechino nel 2017.
Le nuove tariffe in vigore da settembre
Le merci sottoposte alle nuove tariffe al 10%, che potrebbero entrare in vigore già a settembre, compaiono in una lista di 205 pagine pubblicata ieri e prendono di mira i generi alimentari, dai funghi ai succhi d’arancia, il cibo per cani, il sapone e persino la carta igienica, più moltissimi altri prodotti di uso quotidiano: quando la lista entrerà in vigore, saranno circa diecimila i prodotti importati negli Usa soggetti a varie tipologie di tariffe. Nessuna delle due potenze commerciali sembra dare segnali di volere cedere alle pressioni della controparte.
Per Pechino, quella pubblicata dallo US Trade Representative è una lista “scioccante”, che ritiene “totalmente inaccettabile” e contro la quale promette contromisure, senza specificare quali. Per gli Usa, invece, si tratta semplicemente di “una risposta appropriata” per ottenere “l’eliminazione delle dannose pratiche industriali da parte della Cina”.