Il governo di Pechino ha avvertito che prenderà le "misure necessarie" se i dazi commerciali decisi da Washington danneggeranno gli interessi economici cinesi. "La Cina non vuole una guerra commerciale, ma se gli Stati Uniti varano azioni che ledono gli interessi cinesi, la Cina non starà a guardare e prenderà le misure necessarie". Queste le parole con cui Zhang Yesui, portavoce dell’Assemblea nazionale del Popolo (Anp), ha lanciato un segnale di ammonimento a Washington dopo l’annuncio da parte di Trump di dazi sulle importazioni di acciaio e alluminio. "Politiche basate su giudizi o percezioni sbagliate danneggeranno le relazioni e porteranno a conseguenze che nessuna parte vorrebbe vedere", ha scandito Zhang. In un riferimento indiretto alle tensioni commerciali con gli Stati Uniti, il primo ministro cinese Li Keqiang, all'apertura della "doppia sessione" dell'organo legislativo, ha detto che la Cina “chiede la risoluzione delle dispute commerciali attraverso discussioni tra pari, si oppone al protezionismo commerciale e salvaguarderà con risolutezza i suoi diritti legittimi”.
Non ci sarà una escalation nella disputa commerciale
Pechino fa la voce grossa ma non lancia - per ora - ritorsioni. Non siamo di fronte a un escalation nella disputa commerciale e la risposta tutto sommato pacata di Pechino, che nei giorni aveva invitato gli Stati Uniti alla moderazione, ne è la conferma: “Le tensioni commerciali tra Usa e Cina non hanno origine dalle azioni di Trump ma dai dazi applicati in prima battuta dalla Cina”, spiega all’Agi Michele Geraci, docente di economia alla Nottingham University Business School China e direttore del Global Policy Institute. “I dazi su acciaio e alluminio - ha aggiunto - sono una risposta alle politiche protezioniste cinesi. La Cina sa bene che gli attriti non sono partiti da Trump, quindi si muove con prudenza”.
I dazi non avranno un grande impatto in Cina
Insomma, Pechino ha la coda di paglia, oltre a sedere su un forte surplus commerciale con gli Usa (balzato a 275 miliardi nel 2017), che le impedisce movimenti bruschi. “Il mercato cinese è più chiuso di quello occidentale”, spiega Geraci. “Né Usa né Europa – ha detto – hanno concesso a Pechino lo status di economia di mercato". La Cina è da più parti accusata di fare concorrenza sleale privilegiando le proprie aziende e di aver creato una black list degli investimenti esteri, nonostante le recenti buone notizie che riguardano un migliore accesso delle compagnie straniere in alcuni settori finanziari. Pechino rivendica a più riprese il proprio impegno ad aprire maggiormente il mercato. Lo ha fatto il presidente, Xi Jinping, nella sua relazione al Congresso del Pcc di ottobre scorso, nella veste di segretario generale, quando ha detto che la Cina "non chiuderà le porte al mondo" ma sarà "sempre più aperta" per raggiungere l'obiettivo di diventare un "grande, moderno Paese socialista" entro il 2050. Lo ha ripetuto questa mattina, a margine dei lavori dell'Anp, il presidente della Commissione Nazionale per lo Sviluppo e le Riforme, He Lifeng, che ha promesso maggiori aperture alle aziende straniere.
Lo scopo della recente missione negli Usa di Liu He era proprio di evitare l’escalation. I dazi, che sono stati annunciati mentre l’advisor economico di Xi Jinping era alla Casa Bianca, a parte la lavata di faccia, non avranno un grande impatto in Cina (qui lo spiega bene il Foglio). "Pechino è solo l’undicesimo esportatore di acciaio negli Usa”, spiega Geraci. “Solo il 2% del consumo statunitense viene soddisfatto dalla Cina. I cinesi consumano gran parte dell’acciaio prodotto a casa loro, e ne stanno riducendo la produzione per risolvere il problema della sovraccapacità, che con la Nuova Via della Seta intendono esportare nei mercati dell’Asia Centrale”. La produzione di acciao è diminuita di 100 milioni di tonnellate nel 2017.
Come Pechino potrebbe fare male a Trump
Come ricorda La Stampa, la Cina potrebbe aver pronte una serie di contromisure che tuonano minacciose alle orecchie del presidente americano, dai possibili dazi sull'importazione di prodotti agricoli statunitensi, sui quali Pechino ha avviato una inchiesta con l'accusa di dumping, all’arma del debito, di cui la Cina possiede almeno la metà, oltre al blocco delle importazioni di carne. Ma secondo Geraci “la logica della ripicca è irrazionale” e rischia di essere un boomerang. “La Cina non impone mai dazi per ripicca ma solo ed esclusivamente per proteggere le proprie industrie”, spiega l’economista. “La Cina importa i prodotti che non è in grado di produrre. Punto".
"Pechino - prosegue - ha tolto l’embargo alla carne bovina italiana perché ne ha bisogno. Se l’Italia si svegliasse domani e decidesse di imporre dazi sull’acciaio, sarebbe improbabile che la Cina rispondesse applicando - per esempio - dazi sulla carne”. La Cina ha aperto una indagine sull’importazione di prodotti agricoli statunitensi (4,8 milioni di tonnellate nel 2017 per un miliardo di dollari) con l’accusa di dumping giacché il governo Usa sostiene i propri agricoltori con politiche di sussidio. “Possibili dazi in questo settore sarebbero più sanitari che commerciali in quanto in Cina c’è sempre stato un controllo ferreo sulla qualità e sulla produzione dei cibi per il timore di contaminazione”, ha spiegato Geraci.
Protezionismo "un'arma a doppio taglio"
Perché Trump sfida l'Europa e la Cina a colpi di dazi senza la certezza di un reale beneficio per gli Stati Uniti? "Trump sta cercando di mantenere le promesse elettorali e proteggere la produzione Usa£, risponde Geraci. "I dazi non sono perpetui, restano in vigore per qualche anno, in genere cinque, e vanno a colpire solo alcuni paesi e alcuni prodotti”, spiega Geraci. “Il protezionismo non è mai assoluto, ha lo scopo di proteggere industrie e lavoratori temporaneamente in difficoltà”.
“Il protezionismo è un’arma a doppio taglio che ferisce non solo gli altri ma anche se stessi”, era stato il commento della portavoce del Ministero degli Esteri di Pechino, Hua Chunying, alla mossa degli Stati Uniti di introdurre dazi su pannelli solari e lavatrici nel gennaio scorso. "Dobbiamo dire no al protezionismo" aveva detto il presidente cinese, Xi Jinping, a Davos l'anno scorso, divenendo campione della globalizzazione.
"La Cina è cresciuta grazie al protezionismo, se no finiva come la Nigeria!”
Ma, suggerisce Geraci, il protezionismo ad hoc non è un'idea del tutto sbagliata. “La Cina è cresciuta con una media del 10% per 40 anni grazie al protezionismo, se no finiva come la Nigeria!”, scandisce l’economista. “Il governo cinese ha fatto del controllo dei dazi e dei rapporti con l’estero uno dei punti fondamentali del proprio successo economico”.
II dilemma di Tesla
Politiche che oggi fanno arrancare alcuni settori. La Cina applica dazi del 25% sui veicoli di importazione, mettendo in difficoltà i Paesi maggiori produttori di auto: Usa e Germania. Ma mentre il gruppo automobilistico Volkswagen produce in Cina 3 milioni e mezzo di vetture l’anno perché in grado di fabbricarle in Cina, le aziende statunitensi temono l’opzione della joint venture con un partner cinese per il rischio di furto di know-how. Il dilemma davanti il quale si trova oggi Tesla.
Il presidente Elon Musk punta a costruire un impianto indipendente di assemblaggio delle proprie autovetture elettriche nella zona economica speciale di Shanghai, aggirando così i dazi del 25%, senza però stipulare un accordo di joint venture 50-50 con un costruttore locale, un passaggio obbligato per chi vuole affari nel territorio cinese. Le trattative con la municipalità di Shanghai sono in stallo ormai da sette mesi. La Casa californiana avrebbe seri problemi a competere nel grandissimo mercato delle auto elettriche cinesi - ritenuto strategico nel piano Made in China 2025 - il cui obiettivo è incrementare i volumi delle auto a batteria a 7 milioni all'anno.
“Tesla ha due opzioni – spiega Geraci - produrre negli Usa ed esportare in Cina pagando il dazio del 25%, oppure produrre in Cina senza eludere le tariffe ma entrando in società con un partner locale, con il rischio di scippo di know-how. La Cina ha l’obiettivo di 35 milioni di auto elettriche circolanti entro il 2025, le prospettive di crescita per le vetture a marchio Tesla sono altissime: nel 2016, il gruppo ha venduto in Cina circa undicimila vetture per un totale di un miliardo di dollari”.