Sono passati solo due anni da quando Jeremy Corbyn veniva festeggiato come una rockstar al festival di Glastonbury, e non solo perché era riuscito a strappare decine di seggi ai Tory. Oggi lo scenario per il leader dei laburisti è molto diverso: in affanno nei sondaggi, le accuse di antisemitismo rivolte al suo partito e, soprattutto, le critiche reiterate - che il premier Boris Johnson non manca certo di rinfacciargli - di non essere sufficientemente limpido nei confronti della 'madre di tutti i temi', ossia la Brexit.
Se al referendum del 2016 si era espresso a favore della permanenza del Regno Unito nell'Unione europea, in effetti il 70enne Corbyn - espressione dall'anima più di sinistra del partito - è considerato euroscettico da sempre. Fatto sta che nessuno sa dire, oggi come oggi, se Corbyn porterebbe il Paese fuori dall'Ue oppure no, nel caso vincesse alle elezioni anticipate di questo giovedì.
Per ora il suo piano è quello di rinegoziare l'accordo con l'Ue nella quale l'ancoraggio con l'Europa sia più forte rispetto alla variante BoJo. Il capo laburista vuole per esempio rimanere nell'unione doganale e mantenere legami stretti con il mercato interno dell'Ue. Una volta trattati questi passaggi, Corbyn intende portare l'intesa ad un secondo referendum, in cui far decidere i britannici. Lui stesso, in tal caso, promette la propria "neutralità".
Intanto Corbyn batte sui temi sociali a lui più cari: il cattivo stato del sistema sanitario nazionale (che secondo lui Johnson vuole invece "svendere" sull'altare di un accordo di libero scambio con gli Usa trumpiani), le emergenze abitative, i guai dell'istruzione.
Tra i punti più controversi del suo programma, quello di nazionalizzare l'energia, la rete idrica, la posta e le ferrovie: unico modo, a suo dire, per raggiungere gli obiettivi necessari alla difesa del clima.
Ovviamente, gli imprenditori e l'industria protestano vivamente. In campagna elettorale ha tuonato: "Staremo addosso agli evasori fiscali, a pessimi capi, a chi affitta senza scrupoli". Padre di tre figli e sposato tre volte, dai suoi sostenitori è considerato un politico "sincero", che non ricorre "agli sporchi trucchi" dei suoi contendenti.
Fedele ai propri principi, è vegetariano, pare sia astemio e non fuma. Agli attacchi personali non risponde mai: "Non è nel mio stile", ripete. Un passato da rappresentante di sindacati e movimentista, autodefinito "socialista democratico", Corbyn non raccoglie l'entusiasmo di tutti i suoi compagni di partito: eletto a sorpresa al vertice del Labour dopo la sconfitta di Ed Miliband alle elezioni del 2015, c'è chi lo bolla come espressione della sinistra radicale, con simpatie un po' troppo marcate verso gli autocrati dei Paesi socialisti, mentre molti dei "corbynistas" più convinti, come vengono chiamati, sono entrati nel Labour solo in tempi recenti.
Per di più, stando ai sondaggi solo un quarto degli elettori britannici pensa che sia adatto ad entrare a Downing Street per governare il Paese: è la metà di coloro che ritengono BoJo più adatto all'incarico. Ma a pesare ancora di più sulla sua immagine pubblica sono le accuse di antisemitismo al Labour, che hanno a che vedere solo in parte con il sostegno di Corbyn alla causa palestinese.
Una stragrande maggioranza degli ebrei britannici lo definisce apertamente antisemita, e circa la metà non esclude di lasciare il Paese se fosse lui ad entrare a Downing Street. Un colpo pesante è stato l'accusa di non essersi impegnato ad estirpare "il veleno antisemita" dal Labour che gli è stato rivolto dal rabbino capo britannico, Ephraim Mirvis, poi rafforzato dall'arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, che ha parlato di "profondo senso di insicurezza e di paura vissuto da molti ebrei britannici".
Polemiche alle quali Corbyn ha reagito scandendo, al primo duello tv con Johnson, che "l'antisemitismo è un flagello. Ho compiuto dei passi per affrontare il tema, comprendo la storia disperata di questa vicenda". Quanto queste polemiche peseranno sul voto lo si capirà giovedì sera.