“La Cina non è una democrazia, ma non è nemmeno totalitarista. Questo è esattamente il suo fascino”, scriveva giorni fa Robert Kaplan su La Stampa. Xi Jinping ha vinto. Oggi per lui, 64 anni, si è aperto il secondo e illimitato mandato; è stato rieletto all’unanimità nella carica di presidente della Repubblica popolare cinese e di presidente della Commissione militare centrale, l’organo decisionale delle forze armate, dai 2970 delegati dell’Assemblea nazionale del popolo (sorta di Parlamento).
Il “presidente di ogni cosa” riunisce in sé le tre cariche più importanti, cioè quella di segretario generale del Partito comunista cinese, ottenuta nell’ottobre scorso, al termine del XIX Congresso del partito, di presidente della Repubblica popolare cinese e di presidente della Commissione militare. Xi aggiunge un nuovo tassello a un percorso che si era già consolidato al Congresso di ottobre, con l’inserimento del suo pensiero nello statuto del PCC (“socialismo con caratteristiche cinesi nella nuova era”), un onore riservato prima di lui solo a Mao e a Deng: riaffermare la supremazia del Partito sullo Stato e mettere sé stesso al centro del Partito. Il “core leader” e il Partito comunista sono una cosa sola: chiunque vi si opponesse, si collocherebbe automaticamente al di fuori di esso (come abbiamo già scritto molte volte).
Ma attenzione: Xi non è il nuovo Mao. “Mao aveva il sogno rivoluzionario, Xi ha il sogno imperiale”, dice in questa intervista all’Agi Alessandra Lavagnino, sinologa, docente di lingua e cultura cinese all’Università degli Studi di Milano; il suo ultimo libro lo ha scritto con Bettina Mottura e si intitola “Cina e modernità. Cultura e istituzioni dalle Guerre dell’Oppio a oggi” (Carocci editore, 2016).
Una cosa è certa: “l’autoritarismo illuminato” di Xi, come lo chiama Kaplan, sfida il modello liberale in crisi. La Cina sta tentando con successo “il ripristino dell’armonia regionale sotto una nuova e molto più sfumata versione dell’ordine imperiale”. Con la Nuova Via della Seta Pechino ridisegna gli equilibri geopolitici dell’Eurasia (non senza problemi).
Cosa significa questa modifica costituzionale
L’abrogazione del limite del doppio mandato quinquennale, ratificato dall’Assemblea Nazionale del Popolo l’11 marzo con il 99,86% dei consensi, ha spianato la strada a Xi per un incarico perenne, ben oltre la naturale scadenza del 2023. Una mossa che molti osservatori politici hanno accolto con sgomento. La modifica costituzionale rompe il meccanismo di successione ordinata che aveva contraddistinto il sistema politico cinese negli ultimi 25 anni.
Fu Deng Xiaoping, nel 1982, a inserire nella costituzione il limite del doppio mandato presidenziale per evitare il ritorno di figure carismatiche dopo gli eccessi maoisti in un Paese dal passato imperiale. Il voto di domenica scorsa lo ha abolito facendo ripiombare la Cina nel passato, almeno in apparenza. Ad alimentare inquietudine, anche la creazione della nuova Commissione di supervisione nazionale, che riassumerà le funzioni giudiziarie statali e disciplinari del PCC e sorveglierà la condotta dei dirigenti pubblici: un corpo politico indipendente dal Consiglio di Stato, posto al di sopra della magistratura, che rischia di contrastare il pieno sviluppo di uno stato di diritto (spiegato qui dagli analisti).
Nel tentativo di Xi di creare un nuovo “sistema di partito”, come da lui stesso definito, e nella centralizzazione della lotta alla corruzione (qui l’analisi di Jerome Cohen), molti analisti, anche in Cina, vedono il pericolo di una involuzione autoritaria. Il mondo teme la riaffermazione di un sistema di discrezionalità individuale, in altre parole il ritorno del leader onnipotente.
L’interpretazione prevalente è che la Cina abbia bisogno di centralizzare il potere – come emerge dal piano di ristrutturazione del governo - in una fase delicata di sviluppo, stretta tra la necessità di ridurre le disuguaglianze e di consolidare la posizione internazionale.
In pochi hanno però colto una sfumatura: Xi non aveva bisogno di modificare la costituzione per assicurarsi un potere perenne, perché lo aveva già ottenuto, come capo del Partito e dell’esercito. In Cina il titolo di presidente ha una valenza cerimoniale, di gran lunga meno importante di quelle di Segretario Generale e di presidente della Commissione Militare, che non prevedono limiti di mandato: termini dettati dalla prassi che vuole che i leader cedano lo scranno dopo i 68 anni (consuetudine che con la nomina di Wang Qishan a vice presidente sembra destinata ad essere accantonata).
Ma, come sottolinea Ian Johnson, non bisogna sottovalutare il potere simbolico della carica presidenziale in un mondo dove l’immagine forgia la postura internazionale. Xi non potrebbe recarsi in visita all’estero sotto la veste di segretario Generale senza correre il rischio di suscitare paragoni con l’ex-Unione Sovietica, da cui invece la leadership cinese prende le distanze per scongiurare il rischio del collasso. Non solo. Per 25 anni le tre cariche sono state riassunte in una sola persona. Se Xi avesse dovuto cedere tra cinque anni la carica di presidente, avrebbe dovuto condividere il potere con un capo di stato pronto ad apparire nelle occasioni cerimoniali. In Cina non avrebbe mai funzionato.
Xi ha un potere paragonabile solo a quello che aveva Mao. Ma Xi non è il nuovo Mao. Le derive autoritarie che serpeggiano in Cina sono di pessimo gusto, ma inquadrate nel contesto storico appaiono scenari di cui si favoleggia, seppur non privi di consistenza.
La politica dei predecessori
Cerchiamo di capirci qualcosa. Andiamo a ritroso. Lo facciamo in questa intervista con Alessandra Lavagnino. “Xi Jinping, per la sua storia, la formazione, la personalità, il potere, spicca nello scenario internazionale tanto quanto non lo sia stato per i leader precedenti”, dice Alessandra Lavagnino. “L’amministrazione Hu-Wen (2003-2013) – spiega - è stata a dir poco opaca. Hu Jintao non parlava senza ‘pizzino’; è stato un personaggio in grado di mettere in piedi un governo sicuramente più ‘liberale’ dei governi passati, molto meno mercato da messaggi ideologici”. Il contributo ideologico di Hu Jintao è stato il concetto di “società armoniosa”.
Jiang Zemin (1989-2002, teoria delle tre rappresentatività) e prima di lui Deng Xiaoping (1978-1989, teoria del socialismo con caratteristiche cinesi), l’architetto delle riforme economiche, sono state figure di transizione; importanti perché hanno consentito l’istituzionalizzazione del meccanismo di successione. “Dopo l’ubriacatura di ideologia e di leadership carismatica che aveva caratterizzato l’epoca maoista, Deng aveva voluto teorizzare una politica di basso profilo”, elabora Lavagnino. In che modo? “Avviando – spiega - una fase di riforma che ha consentito l’atterraggio morbido della Cina nella globalizzazione. La Cina che Mao lasciò alla sua morte nel 1976 era un Paese isolato, affaticato, in un mondo diviso dalla Guerra Fredda, radicalmente diverso da quello che, grazie agli anni di Deng, ci troviamo di fronte oggi”.
In altre parole, si può dire con qualche fondatezza che fu grazie alla trasformazione avviata dal “piccolo timoniere” esattamente 40 anni fa, nel 1978, che la Cina ha sancito il suo ingresso nel mondo: “Lo ha fatto – sottolinea la sinologa - grazie a figure che non avevano le connotazioni politiche e ideologiche che invece Xi ha proposto fin da subito”.
Punti in comune tra Xi e Mao
In comune Xi e Mao (1949-76) hanno il carattere, la personalità carismatica. “Xi viene dalla tradizione maoista”, dice Lavagnino. Esponente della dinastia dei "principi rossi”, costituito dai figli dei quadri di alto livello (il padre è Xi Zhongxun, un veterano della Lunga marcia), Xi, durante la Rivoluzione Culturale (1966-76), all’epoca quindicenne, fu spedito nelle poverissime zone contadine a rieducarsi, insieme ad altri 18 milioni di cinesi. A Liangjiahe – oggi meta di pellegrinaggio - trascorse ben sette anni. Allevava maiali. Puliva cessi (qui il suo ritratto e qui le tappe della sua carriera).
“Li accomuna – aggiunge - la capacità politica di tenere insieme il Paese: Mao (dopo il Secolo dell’Umiliazione, ndr) ha restituito dignità alla nuova Cina; Xi ha ridato dignità al nuovo impero cinese proponendo il “sogno cinese” di rinascita della nazione. Mao aveva il sogno rivoluzionario, Xi ha il sogno imperiale”.
Le differenze
“Mao – scandisce Lavagnino - voleva costruire l’uomo nuovo facendo tabula rasa del passato. Internazionalismo proletario, collettivismo, patriottismo e comunismo; questi i valori propugnati dal “Grande Timoniere”.
“Invece Xi – aggiunge - incarna il comunista del futuro che affonda le radici nella tradizione dell’impero. La grande scommessa dell’attuale leader è mettere insieme l’uomo nuovo comunista con il vecchio uomo cinese: un’operazione fondata sul recupero di cinquemila anni di civiltà cinese”. Rispolverando le radici che Mao aveva voluto distruggere.
“La propaganda chiaramente si scatena”, prosegue la sinologa. “Ma la Cina di oggi – aggiunge - non ha paura del suo passato feudale, come ai tempi di Mao, che in quel passato da cancellare vedeva un ostacolo alla modernizzazione”.
“La Cina maoista – continua Lavagnino - era chiusa in un mondo spaccato in due blocchi. Il popolo cinese viveva all’interno di un sistema di informazione rudimentale. Nel mondo attuale, l’idea che i cinesi non sappiano niente è stata ampiamente superata; per quanto il regime eserciti un controllo serrato sulle nuove tecnologie, è impossibile impedire la circolazione delle notizie”.
C’è poi l’aspetto che inorgoglisce i cinesi che ampiamente sostengono il loro presidente, fatta eccezione per qualche smagliatura. “Xi – dice la sinologa - è un il primo leader cinese a trattare con Putin guardandolo dall’alto al basso; il primo che tiene testa al presidente americano”. (E Trump ne subisce il fascino).
“Xi – continua – mette tutto il suo peso sullo scenario globale. Prima di lui, né Deng né Jiang hanno avuto lo spessore di andare a sedersi sui tavoli internazionali. Penso che i cinesi siano fieri di avere un leader globale che tiene testa a Trump: il sogno nazionalistico di cui la Cina si nutre è potentissimo”. Xi Jinping è una imponente figura presidenziale: un motivo in più per avvertire la necessità di armonizzare le cariche.
Certo: l’abrogazione del limite del doppio mandato apre delle sfide al meccanismo di successione ordinata, che aveva funzionato per venticinque anni. “E’ difficile – ammette Lavagnino - capire cosa stia accadendo in Cina senza essere fisicamente presenti; si perdono le sfumature. Non credo che Xi abbia condotto la campagna anti-corruzione solo per liberarsi dei suoi avversari politici; credo vi fosse il chiaro intento di estirpare la mentalità da mazzetta che stava distruggendo il Partito”. In cinque anni la Commissione disciplinare ha punito 240 alti quadri (“tigri”) e 1 milione 140 mila funzionari minori (“mosche”). Lo ha fatto sotto la guida del fedelissimo ex zar Wang Qishan, 69 anni, oggi nominato vice presidente.
Le grandi sfide che attendono la Cina
Una delle grandi sfide di Xi è la centralizzazione del potere per contrastare i poteri regionali. “A livello regionale – spiega Lavagnino – vi sono squilibri immensi. La decentralizzazione delle province dei primi anni ‘novanta ha alimentato una pericolosa deriva di revanscismo regionale; fughe centrifughe rischiano di produrre instabilità politica. Sono dinamiche che dal punto di vista delle autorità centrali vanno sapute governare. Xi vuole realizzare riforme colossali, ha bisogno di spazio. Quattro anni fa chi avrebbe mai scommesso che la battaglia contro l’inquinamento sarebbe stata vinta nelle città del Nord della Cina? I cinesi avranno pure un governo autoritario, ma oggi respirano meglio”.
Il partito comunista si sta candidando come l’unica forza politica. “Il messaggio è chiaro – dice Lavagnino - e ha echi imperiali: signori, siamo noi ad avere il consenso, il ‘mandato celeste’”.
Un messaggio che manda in tilt non solo l’Occidente, ma anche l’Asia, dove serpeggiano sentimenti sinofobi. “Forse – ammette Lavagnino – c’era un altro modo per traghettare la Cina versa la “nuova era”. Ma la recente abrogazione del limite del doppio mandato è il consolidamento di un percorso già emerso dopo il XIX Congresso, che si era concluso senza l’indicazione di un erede”.
“Negli ultimi due anni – spiega Lavagnino - non era spuntato il nome di un papabile successore, un fatto inusuale. La Cina ci aveva abituati, nelle fasi precedenti, a una prassi diversa: alla morte di Deng Xiaoping, nel 1997, fu Hu Jintao a portare le sue ceneri. Non fu un caso: nella simbologia del partito comunista, in questo episodio si coglieva l’indicazione che Hu sarebbe stato il successore di Jiang Zemin; e così fu, nel 2002. Nel caso di Xi, invece, nessun nome è mai emerso dai leader della sesta generazione. Sono alchimie che ci sfuggono. Dobbiamo poi tenere conto di un altro aspetto. Il pilastro su cui si regge il consenso di Xi è la classe media, che potrebbe restare penalizzata da una deriva eccessivamente autoritaria del regime. Cerchiamo di capire cosa succederà nei prossimi anni senza immaginare esiti scontati”.
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