La Cina continuerà a sviluppare il manifatturiero avanzato e frenerà sulle riforme finanziarie. Ne è convinto Michele Geraci, docente di economia alla Nottingham University Business School China e direttore del Global Policy Institute. Posto che l’agenda economica del PCC verrà trattata solo il prossimo anno, nel corso del terzo plenum del diciannovesimo Congresso, alcuni segnali sulla direzione che le riforme prenderanno potranno emergere dal Congresso, (19-24 ottobre).
“La novità principale riguarderà la riconferma o meno di Li Keqiang nel ruolo di premier, ovvero il leader che in teoria guida le riforme economiche”, dice Geraci. Difficile, però, aspettarsi grandi cambiamenti dall’appuntamento politico che nominerà i nuovi (fedelissimi) dirigenti al fianco del presidente Xi Jinping nel suo secondo mandato (2018-2022). Mentre l’Ufficio Nazionale di Statistica di Pechino segna una crescita al 6,8% per il periodo da luglio a settembre scorsi, in linea con le attese degli analisti e al di sopra del target fissato dal governo del 6,5%, riecheggiano i dubbi di Xi Jinping sullo sviluppo della Cina, definito ancora “non equilibrato e inadeguato”: nonostante un costante aumento del prodotto interno lordo cinese dal 2012 a oggi, nel suo discorso in apertura del Congresso, Xi aveva sottolineato l’importanza di focalizzarsi sulla qualità della crescita e sui consumi interni.
“Continuerà la spinta sullo sviluppo del manifatturiero”. Per due motivi
Primo: “Il manifatturiero è quello che la Cina sta fare meglio: puntare su un settore arcaico ha reso necessario svecchiarlo. Ed è così che la Cina si è inventata il Made in China 2025: il piano che vuole creare il manifatturiero avanzato e puntare sul green e sull’innovazione: non più magliettine ma intelligenza artificiale, robot, auto elettriche”. Secondo: “I servizi non tirano molto”. Perché? “Investire sul manifatturiero è più efficace”. Un esempio? “Se investi su una fabbrica, comprando nuovi macchinari, l’impatto sul settore industriale è immediato: la fabbrica cresce. Dirottare risorse sui servizi innesca invece un processo più complicato: se investi su know-how e innovazione, il soldo non tira immediatamente: il tempo di risposta è più lungo. Mentre nel settore industriale basta investire un dollaro per cambiare le cose, nel settore terziario quel dollaro non basta perché bisogna innanzitutto cambiare la testa delle persone”. Il settore finanziario è tra i servizi quello che cresce di più (dall’8 al 17% negli ultimi anni).
La Cina rallenterà sulle riforme finanziarie
L’internazionalizzazione dello yuan (anche detto Renminbi) andrà a letto. “Pechino non ha mai voluto internazionalizzare la propria moneta. Ha voluto far finta di farlo per ottenere l’ingresso dello yuan tra le valute di riserva del Fondo monetario internazionale – insieme a dollaro, euro, yen e sterlina – obiettivo raggiunto il 1 ottobre del 2016. Il valore di utilizzo del renminbi per gli scambi internazionali in quel momento volò al picco di 2,4%, ma poi ha iniziato a scendere. Si trattò dunque di una manovra politica. Oggi il dollaro è usato nel 45% delle transazioni internazionali, lo yuan nel 2%. Un Paese con una moneta internazionale corre maggiori rischi quando scoppia una crisi economica. Mentre un Paese normale, per reagire a una crisi, stampa moneta, e la svaluta per far crescere le esportazioni, un Paese come gli Usa si trova in una posizione diversa: in caso di crisi, la gente compra oro e dollari: il biglietto verde invece di scendere, sale, l’arma della svalutazione non può essere dunque contemplata. La Cina non se lo può permettere, altrimenti l’export va in negativo. Non c’è una certezza matematica in questo calcolo: ma è probabile che con una moneta internazionale si rischia di perdere la tendenza ad avere surplus commerciale – come la Cina - e si va in deficit commerciale - come per gli Usa”.
Rallenterà anche l’avanzamento dell’internazionalizzazione del mercato valutario di Shanghai che “passa necessariamente attraverso l’apertura totale, incondizionata e perpetua del conto capitale, cosa che si può ottenere solo con l’internazionalizzazione della moneta. E lasciare a Wall Street il controllo totale del valore del cambio e del tasso di interessi domestici. E’ come se il governo cinese appaltasse a un neolaureato del MIT con le bretelle che spingendo un tasto del computer, mette in ginocchio la banca centrale di qualsiasi Paese del mondo”.
Sul piano interno, la tanto dibattuta riforma delle aziende pubbliche è incerta. Pechino deve sforbiciare il numero delle aziende pubbliche improduttive e indebitate (tra le quali si annidano le aziende “zombie” ); in parte ha iniziato a riformarle facendo entrare nei colossi statali fondi privati, con l’obiettivo di creare dei campioni nazionali, protagonisti in molti di casi di grandi acquisizioni all’estero, promuovendo al contempo la partecipazione statale nelle aziende private di maggior successo, da Alibaba e Wechat. La riforma del settore pubblico è cruciale ma stenta a decollare: “La velocità e la profondità delle riforme vanno pianificate con grande attenzione”. Diceva Deng Xiaoping: “E’ necessario attraversare il fiume calpestando le pietre”. “Procedere a piccoli passi: mai così vero come in questo caso”, ha concluso Geraci.
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