Manila, aprile 2017. Un ragazzo alza la voce in pubblico, è disperato, la famiglia lo ha rinnegato perché gay, ha un coltello con sé ma non l’ha tirato fuori, viene bloccato dalla polizia, ha solo 16 anni, ma gli agenti che operano il blocco macchiano la data di nascita, così viene scambiato per un maggiorenne e mandato in un carcere che non gli compete. Il caso viene risolto più o meno velocemente, un paio di mesi, quando arrivano i risultati delle analisi dei suoi denti che dimostrano la sua vera età. La condanna per il reato commesso consisterebbe nel pagamento di 4 dollari o in 15 giorni di detenzione, ma da quelle parti la burocrazia del sistema giudiziario è incancrenita e il carcere non riceve alcun ordine di scarcerazione dal Dipartimento di previdenza sociale.
Lui naturalmente protesta ma nessuno lo sta a sentire, non sa nemmeno a chi rivolgersi, perché quello in cui è finito non è un carcere come tutti gli altri ma qualcosa che assomiglia più a come ci immagineremmo un girone dell’inferno, un inferno dentro il quale il ragazzo verrà rinchiuso per un anno e nove mesi. Un accumulo di uomini dove la notte non si distingue dove finisce uno e inizia un altro, sdraiati per terra, anche nei bagni senza finestre, in 518 in uno spazio che ne potrebbe contenere al limite 170.
Un luogo dove la notte l’aria si fa umida e si riesce a respirare esclusivamente il sudore degli innumerevoli compagni di cella, rintanati nei loro cartoni, a ricoprire fino all’ultimo centimetro di pavimento. Il sovraffollamento nelle carceri filippine, secondo prisonstudies.org, è il più alto al mondo, tocca il 463,6% (in Italia il 117,9%, 84esimo paese al mondo, sotto la Francia, sopra Tanzania, Corea del Sud, Taiwan e India), in notevole aumento dal 2016 quando il Presidente Rodrigo Duderte ha imbastito una violentissima campagna antidroga, una campagna dove il destino, per reati anche minimi legati allo spaccio, si risolveva in un omicidio (57 vittime ogni 35 giorni documentate dal New York Times) o in carcere, senza sapere se e quando si sarebbe rivista la luce del sole.
Un luogo, il carcere di Manila, che ridisegna i contorni di qualsiasi concetto umanamente accettabile di riabilitazione. Il sovraffollamento da record infatti ovviamente poi sfocia nella formazione di un microcosmo dove non ci si può proprio aspettare che a comandare siano le guardie, una ogni 528 detenuti (il governo filippino ne raccomanda una ogni 7), così l’unico modo per umanizzare il più possibile il luogo è scendere a patti con le cinque mega gang che lo controllano, stare alle loro regole.
"Qui c'è un equilibrio di pace e ordine", ha detto al New York Times il capitano Jayrex Bustinera, portavoce e capo degli archivi del carcere. "Formalmente, non permettiamo ai detenuti di sorvegliare gli altri detenuti. Informalmente, lo facciamo a causa della mancanza di risorse", fare diversamente, insomma, sarebbe impossibile.
Una di queste gang si chiama Sigue Sputnik ed è comandata da un detenuto 37enne di nome Buboy Mendiola, in uno dei rari raid dell’amministrazione carceraria gli vengono trovati circa 13.500 dollari, frutto di una microeconomia assolutamente necessaria ai capi per soddisfare bisogni primari totalmente ignorati dallo Stato. Per cui a Natale con quei soldi vengono comprati maiali e polli per la loro festa, una parte viene messa da parte per le emergenze mediche e i servizi base del dormitorio come sapone e dentifricio.
Lo scontro fisico chiaramente non c’è modo di poter essere evitato, così gli Sputnik hanno deciso di gestirlo, imponendo anche in quel caso delle regole ferree: una scazzottata costa 5 frustate con una mazza in legno laccata e targata SPUTNIK, e se qualcuno nello scontro perde sangue quel numero può salire a 15 o 20; avvicinarsi al visitatore di un altro detenuto costa 20 frustate, 25 se si osa anche solo strizzargli l’occhio. Regole magari severe, animalesche, ma che servono a gestire una situazione che viaggia sul filo della follia, tant’è che dopo sei anni passati dietro le sbarre l’avvocato del boss Mendiola gli ha comunicato che presto verrà scarcerato ed ora il problema è trovare un altro capo, non, dice, semplicemente qualcuno che si faccia rispettare, ma “qualcuno devoto, uno a cui importi la vita delle persone, che vuole fare le cose giuste e si dimostri giudizioso nel gestire la disciplina”.
Finire nel carcere di Manila, in pratica, è come finire in un altro universo, dove cambiano le regole, cambia la religione, cambiano i punti riferimento, il concetto stesso di famiglia e si diventa solo, come le foto mostrano bene, carne accumulata dentro uno spazio che fa di tutto per non impazzire.