Questa volta difficilmente riuscirà a farla franca nascondendosi nel cesto della biancheria o fuggendo a bordo di una moto in un tunnel scavato sotto alla doccia della sua cella. Per El Chapo, il boss messicano della droga recentemente condannato dal tribunale di New York, si aprono per la terza volta le porte della prigione.
Non più però quelle messicane, da dove è riuscito a evadere in due diverse occasioni, ma quelle del carcere statunitense più sicuro di tutti: l’Adx – sigla che indica la “massima sicurezza” nel sistema carcerario americano – di Florence, in Colorado. Due ore di auto a sud di Denver, quasi nel centro perfetto di quel rettangolo che è il Colorado, Florence è un paesino di quattromila anime, uno degli ultimi avamposti urbani prima di avventurarsi nei parchi nazionali che coprono buona parte dell’area occidentale del Colorado.
L’Alcatraz delle montagne, la prigione inespugnabile
Sei chilometri tutti dritti, senza nemmeno una curva, di asfalto spaccato in due dalla doppia linea gialla che vieta il sorpasso. Il limite di 55 miglia all’ora, guai a superarle. Due corsie, una che va verso il centro del paesino e l’altro che si avventura verso sud per poi salire verso le montagne. Il supercarcere che, con ogni probabilità, ospiterà il narcotrafficante Joaquin Guzman si affaccia sulla Colorado Highway 67, l’autostrada che in questo punto corre praticamente nel vuoto.
Non a caso l’Adx di Florence è chiamato l’Alcatraz delle montagne. Da qui, la prigione più sicura degli Stati Uniti aperta nel 1994, nessuno è mai evaso, e in molti scommettono che non ce la farà neppure El Chapo. Il motivo? Un’organizzazione senza eguali, regole ferree e l’isolamento che qua raggiunge livelli mai visti prima.
Per 23 ore al giorno i detenuti vivono in celle da tre metri e mezzo per due, illuminate soltanto da una piccola finestra, con gli arredi di cemento armato fissati al muro in maniera da non poter essere spostati; per i sessanta minuti d’ora d’aria possono lasciare la propria stanza per trasferirsi all’esterno: in questo caso però finiscono dentro gabbie e piantonati da più guardie, come ha scritto il Boston Globe.
“È una versione pulita dell’inferno – la testimonianza di una guardia al quotidiano statunitense – e quando dico che è pulita intendo che tutto è perfettamente lavato e silenzioso”.
Anni interi senza toccare una persona. La denuncia di Amnesty
Il silenzio è ciò che caratterizza la prigione di Florence. Spostamenti e uscite sono organizzati in maniera da non far incontrare incontrare i detenuti. Al Supermax (altro soprannome del carcere di Florence) vivono poco meno di 500 persone, tra i quali l’Unabomber statunitense Ted Kaczynski, il responsabile dell’attentato alla Maratona di Boston del 2013 Dzhokhar Tsarnaev, il cospiratore Zacarias Moussaoui coinvolto nell’11 settembre e uno dei due responsabili dell’attentato di Oklahoma del ‘95 Terry Nichols.
Gli incroci tra di loro, come detto, sono improbabili: in cella si mangia, si va in bagno, ci si fa visitare dai medici (quando va bene, perché in alcuni casi i controlli psichiatrici avvengono in videoconferenza). Zero contatti con l’esterno anche in caso di visite: tra detenuto e visitatore rimane sempre e comunque un vetro. Una barriera fisica che rischia di annullare ogni contatto fisico per anni.
I metodi usati nel Supermax di Florence sono stati in passato fortemente criticati da Amnesty International: “Le condizioni del carcere sono inaccettabilmente dure e i programmi in cella non possono compensare la mancanza di interazione sociale che molti prigionieri subiscono per interi anni”, ha denunciato l’ong.
Contro l’estradizione nella prigione del Colorado si era battuto anche Babar Ahmad, l’uomo incarcerato nel Regno Unito tra 2004 e 2012 con l’accusa di fornire materiale di supporto al terrorismo. Una battaglia vana, visto che alla fine Ahmad trascorse tre anni negli Stati Uniti, ma che lascia in eredità una testimonianza preziosa: la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
In quelle pagine si legge che chi soffre di malattie mentali continua a essere tenuto in isolamento nonostante il parere contrario delle associazioni di medici; che per tutti i detenuti “i contatti con lo staff del carcere possono essere di appena un minuto al giorno” e che le ore d’aria all’esterno possono essere sospese per “infrazioni minori”, come quella commessa da un uomo colpevole di aver “provato a dare da mangiare le briciole agli uccelli”. Per lui sessanta giorni senza attività all’aperto.