Un’indagine sui campi di detenzione in alcune fabbriche dello Xinjiang ha mostrato il loro collegamento con le condizioni di lavoro forzato o poco pagato a cui sono sottoposti detenuti o ex detenuti impiegati nei settori manifatturiero o dell’industria alimentare.
E’ l’accusa mossa al sistema di “trasformazione vocazionale” in corso nella regione autonoma nord-occidentale cinese, dove vive la minoranza musulmana uighura, proveniente da un’inchiesta condotta dall’Associated Press: l’agenzia americana ha tracciato le consegne da una queste fabbriche a un’azienda del North Carolina, la Badger Sportswear, che ha aperto un’indagine interna sulla vicenda.
Lo Xinjiang è un altro motivo di tensione con gli Usa
Del caso si sta interessando che l’amministrazione statunitense, per il sospetto di sfruttamento del lavoro forzato, contrario alle leggi Usa. Il Dipartimento per la Propaganda dello Xinjiang non ha rilasciato dichiarazioni a riguardo.
“Queste notizie sono fondate completamente sul sentito dire o sul nulla”, è stata la replica alle accuse della portavoce del Ministero degli Esteri di Pechino, Hua Chunying, e rappresentano “un attacco maligno che distorce gravemente i fatti”. La portavoce ha parlato genericamente di “corsi” che possono servire agli ex detenuti per trovare lavoro e per il re-inserimento nella società, e tra questi ha citato anche quelli sulla produzione di capi di abbigliamento.
La versione di Pechino sui campi di rieducazione
La visione di Pechino dello Xinjiang è radicalmente diversa rispetto a quella statunitense, e più in generale occidentale: il governo centrale da anni incentra la propria narrativa rispetto alla regione nord-occidentale su un mix di aiuti sul piano economico e la repressione nei confronti dei fenomeni estremisti, separatisti e terroristici, come vengono definiti usando la formula “i tre mali”.
Lo Xinjiang ha messo nero su bianco a ottobre scorso l’esistenza dei “centri di trasformazione educazionale”, con l’approvazione di una legge regionale che mira al reinserimento sociale degli individui accusati di estremismo religioso o di separatismo. Non tutti i centri includono fabbriche sospettate di praticare il lavoro forzato, e alcuni di questi campi si concentrano principalmente sulla “formazione vocazionale e sull’assistenza psicologica”, come recita il testo della legge: una formula che nasconderebbe, secondo testimonianze citate dai media occidentali, l’indottrinamento politico dei detenuti.
In base alla stessa legge è previsto un inasprimento delle pene per i reati connessi alle attività estremiste. Questi centri, in realtà, esistevano prima dell’approvazione della legge, che ha dato loro un fondamento legale, poche settimane dopo che le Nazioni Unite avevano mostrato preoccupazione per rapporti che parlavano di circa un milione di persone detenute in campi di internamento nello Xinjiang.
Come sono i centri di rieducazione
Le dimensioni di questi centri, secondo una recente inchiesta condotta dalla Bbc sia sul campo che con l’aiuto di immagini satellitari, sono aumentate a partire dal 2017. I campi sono in grado, oggi, di contenere decine di migliaia di persone, in particolare membri delle etnie uighura e kazaka, secondo le accuse più recenti.
L’immagine che ne emerge appare lontana da come questi centri sono stati bonariamente descritti dal governatore dello Xinjiang, Shohrat Zakir, in una lunga intervista pubblicata dall’agenzia Xinhua. Le testimonianze ai media internazionali di uighuri che vivono all’estero parlano di familiari scomparsi o detenuti.
Un’indagine compiuta dall’agenzia France Presse a ottobre scorso ha svelato anche gli acquisti fatti da uno di questi centri in cui vivono e lavorano le persone accusate di estremismo. Nell’elenco comparivano 2.768 manganelli in dotazione alle forze dell’ordine, 550 pungoli elettrici per il bestiame, 1.367 paia di manette e 2.792 lattine di spray al pepe. I campi di internamento nello Xinjiang contati dall’Afp sono 181.
L'appello del'Ue e il rifiuto della Cina
Alla Cina sono stati rivolti diversi appelli per una maggiore chiarezza riguardo alla situazione nello Xinjiang. Il mese scorso, quindici ambasciatori a Pechino, in gran parte di Paesi dell’Unione Europea, hanno chiesto in una lettera un incontro con la più alta carica politica dello Xinjiang, il segretario regionale del Partito Comunista Cinese, Chen Quanguo, per discutere della situazione nella vasta regione nord-occidentale cinese.
Chen è uno dei 25 membri del Politburo, l’Ufficio Politico del Comitato Centrale, organo di punta del Partito Comunista Cinese, a capo del quale siede lo stesso presidente cinese, Xi Jinping. La risposta di Pechino è stata netta: gli ambasciatori firmatari sono “benvenuti nello Xinjiang, ma “se vogliono andare con l’intenzione di mettere pressione al governo dello Xinjiang, allora è problematico” e, aveva aggiunto la portavoce del Ministero degli Esteri, Hua Chunying, si pongono al di fuori della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche.
Lo stesso ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, ha bollato come “gossip” le notizie circolanti sullo Xinjiang, durante un incontro a Pechino con il suo omologo tedesco, Heiko Maas, che ha sollevato la questione nell’incontro con lui. Poche settimane più tardi, il governo tedesco ha pubblicato una nota in cui affermava che era stato negato a una delegazione proveniente da Berlino l’accesso allo Xinjiang, contestualmente alla visita in Cina del presidente, Frank-Walter Steinmeier, e al Dialogo tra Cina e Germania sui Diritti Umani che si sarebbe tenuto proprio in quei giorni, a Lhasa, in Tibet.
La Commissaria per i Diritti Umani e l’Aiuto Umanitario del governo tedesco, Barbel Kofler, si è detta “scioccata” dalle notizie emerse sulla regione autonoma nord-occidentale. “Sfortunatamente”, ha dichiarato nella nota, “la mia richiesta di viaggiare nello Xinjiang nel contesto del Dialogo è stata rifiutata”