Con temperature che d'inverno scendono abitualmente sotto i 40 gradi centigradi, Ulan Bator ha lo scettro di capitale più fredda del mondo. Un primato al quale rischia di aggiungersene un altro ben poco invidiabile: quello di capitale più inquinata del mondo dopo Riad e Nuova Delhi. È quanto racconta un reportage del New York Times, che sottolinea come nella città mongola la qualità dell'aria sia ormai peggiore di quella che si respira nelle megalopoli cinesi, a partire da Pechino. Tanto da spingere periodicamente la popolazione a proteste di piazza.
Tutta colpa dello Dzud, un fenomeno atmosferico che consiste in una corrente di aria ghiacciata pronta a calare direttamente sulla Mongolia ed il Deserto del Gobi dal pack dell’Artico. Non risparmia niente e nessuno, ed uccide il bestiame che vive allo stato brado per i due terzi del territorio mongolo. Arriva di solito ogni cinque anni, ma di recente ha intensificato le sue apparizioni, distruggendo i pascoli, assiderando gli armenti, costringendo frotte di poverissimi ad andare a cercare cibo e sopravvivenza in città.
Per capire le origini del fenomeno, bisogna addentrarsi a nord della capitale, dove migliaia di persone, fedeli a una tradizione nomade millenaria, vivono nelle yurte, tende circolari dove in un solo spazio vive un'intera famiglia. Che, per poter sopravvivere a temperature così rigide, ha una sola alternativa. Bruciare carbone. Tanto carbone. Milioni di tonnellate all'anno. E, chi non se lo può permettere, è costretto ad "allungare" la mistura con plastica e altri rifiuti, rendendo l'aria ancora più irrespirabile.
Pur equivalendo a malapena a metà della popolazione complessiva, queste comunità, spiegano le autorità cittadine, sono responsabili dell'80% della cappa di gas nocivi che avvolge la città, soprattutto nei mesi più freddi. Le aree che occupano sono agglomerati sorti in maniera caotica dopo il crollo del comunismo, quando le aree che un tempo appartenevano allo Stato diventano genericamente di proprietà "dei cittadini". Una confusione normativa che ha portato popolazioni un tempo nomadi a stabilirsi vicino alle cave di carbone. Carbone che estraggono, vendono in maniera più o meno legale e bruciano.
"Abbiamo bisogno di una città completamente nuova"
Lo scorso 30 gennaio, in pieno inverno, una stazione di rilevamento di Ulan Bator registrò 3.320 microgrammi di particolato per metro cubo d'aria, un livello 133 volte superiore a quello che la World Health Organization considera sicuro. Le conseguenze sulla salute dei cittadini sono pesantissime, soprattutto per i bambini, tra i quali nel 2015, secondo l'Unicef, si sono contati 435 morti solo tra quelli di età inferiore ai 5 anni. Con un simile inquinamento, una semplice influenza diventa una polmonite.
Di fronte a questi numeri, il primo ministro Ukhnaagiin Khurelsuk lo scorso gennaio ha detto basta e ha annunciato che il trasporto e l'utilizzo di carbone grezzo a partire dal prossimo aprile. Per le comunità che vivono nelle yurte, però, gli impianti di riscaldamento elettrici sono troppo costosi. E, senza il carbone, si brucerà altro. "Abbiamo bisogno di una città completamente nuova", ha raccontato al Nyt Batmend Shirgal, un ingegnere che lavora in una delle centrali elettriche della città, "se porti via il carbone dalle yurte, la gente brucerà di tutto. Gli pneumatici delle loro auto, le staccionate dei loro vicini. È dura sopravvivere a trenta gradi sotto zero".