Il premier britannico Boris Johnson aveva promesso un’uscita dall’Unione europea “senza se e senza ma” entro il 31 ottobre. Anche a costo di un divorzio senza intesa. Uno scenario, quest'ultimo, che secondo gli analisti avrebbe conseguenze imprevedibili e potenzialmente catastrofiche. Per evitare che si mettesse di traverso Westminster, dove aveva una maggioranza di un voto solo, Johnson era arrivato addirittura a chiedere e ottenere dalla Regina la sospensione dei lavori parlamentari dal 9 settembre al 14 ottobre. Non gli è andata bene: prima un parlamentare conservatore è passato ai liberali, facendogli perdere la maggioranza, poi una pattuglia di ventuno Tory ribelli ha consentito l’approvazione in via definitiva del disegno di legge Benn per escludere un divorzio da Bruxelles senza accordo. Intanto la data per ultimare i negoziati si avvicina. Cosa succederà? Quali saranno le conseguenze?
Cos’è la Brexit?
Brexit è il nome dato al processo che porterà il Regno Unito fuori dall’Unione Europea. L’uscita è stata richiesta dagli elettori britannici con il referendum del 23 giugno 2016 e messa in atto tramite l’attivazione dell’articolo 50 del Trattato sull'Unione europea, che regolamenta l’uscita di un Paese membro dall’Ue.
Lo scenario peggiore è il cosiddetto "no deal", ovvero "niente accordo": la Gran Bretagna arriva alla data ultima prevista per i negoziati senza aver raggiunto alcuna intesa con l'Unione Europea. Se così fosse il Regno Unito verrebbe considerato un Paese terzo dal resto dell’Unione, e per tale motivo verrebbero ripristinati tutti i controlli, le ispezioni e la burocrazia prevista per cittadini e merci extra Ue.
Quando è prevista l’uscita?
L’articolo 50 concede due anni di tempo per negoziare i dettagli dell’uscita. Questo periodo può essere esteso con il consenso di tutti gli stati membri dell’Unione. Da gennaio a marzo 2019 l’accordo di divorzio stipulato tra l’allora premier Theresa May e Bruxelles ha incassato tre bocciature da parte del Parlamento britannico che, per legge, è chiamato ad esprimere il meaningful vote. A quel punto, l’uscita No Deal era prevista per il 12 aprile 2019 ma, per evitare l’Hard Brexit, il Consiglio Europeo, d'intesa con la premier Theresa May, ha concesso un altro rinvio fino al 31 ottobre 2019, o fino al primo giorno del mese successivo a quello in cui sia eventualmente approvato l'accordo di revoca.
Tre premier per una Brexit
Nel febbraio 2016 l’allora primo ministro britannico David Cameron negozia un nuovo accordo con Bruxelles, tuttavia, per avere maggior margine di manovra nelle trattative, sceglie di chiamare gli elettori britannici a un referendum sulla permanenza nell’Unione come monito all’Unione. In seguito all'annuncio dei risultati, Cameron, che si era dichiarato favorevole a restare nell’Ue, annuncia le dimissioni. A lui subentra la conservatrice Theresa May, seconda donna ad abitare al 10 di Downing Street dopo la “Lady di Ferro”, Margaret Thatcher.
La nuova premier lavora con una maggioranza risicata all’accordo per l’uscita del Paese dall’Ue. Non ci riuscirà. Sconfitta dopo la terza bocciatura del Parlamento, prova a cercare un’intesa con i laburisti di Jeremy Corbyn. Poi, annuncia in diretta mondiale le sue dimissioni il 24 maggio 2019, effettive dal 24 luglio. Il suo successore è Boris Johnson, capo dell'ala oltranzista dei conservatori che le aveva remato contro per poter prendere il controllo del partito. Il nuovo premier chiarisce subito come l’accordo raggiunto da Theresa May sia “carta straccia”, promettendo di finalizzare entro il 31 ottobre 2019 la Brexit “ad ogni costo”. Anche senza intesa. Ma, a livello di numeri in Parlamento, ha lo stesso problema di May.
Perché non è stato trovato un accordo?
Il vero motivo dello scontro è il cosiddetto "backstop", ovvero la clausola - prevista dall'accordo negoziato da May - secondo la quale, nel periodo transitorio tra la Brexit e la firma di un nuovo accordo commerciale - le regole del mercato comune continueranno a essere valide al confine tra Irlanda e Irlanda del Nord. Per l'ala dura della Brexit, capeggiata da Johnson e Jacob Rees-Mogg, è una clausola inaccettabile in quanto, durante il periodo transitorio, la Gran Bretagna manterrebbe di fatto un piede nell'Unione Europea.
Il problema è che Johnson e i suoi non sono mai stati in grado di proporre un'alternativa credibile per evitare che sorga di nuovo una frontiera tra le due Irlande. Se con un 'no deal' tornassero i controlli al confine tra Belfast e Dublino, verrebbe peraltro violato l'accordo di pace dell'aprile 1998 che aveva posto fine alla stagione del terrorismo e delle violenze.
Quali potrebbero essere le conseguenze della Brexit?
Quali saranno le conseguenze dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea dipenderà molto dalla modalità. Se si raggiungerà un accordo o se sarà un divorzio senza intesa. Sicuramente il ripristino di dazi e dogane renderà più complicato e oneroso il commercio di merci da e verso la Gran Bretagna. Così come l’eliminazione di tariffe vantaggiose e previste per gli Stati membri. Difficile fare previsioni ma secondo uno studio condotto dalla facoltà di economia dell'università belga di Leuven, nel caso di un 'no deal', le conseguenze economiche sarebbero significativamente superiori rispetto a quelle di un divorzio consensuale.
Sempre secondo questo studio, il Regno Unito perderebbe il 4,4% del suo Pil e 525 mila posti di lavoro, mentre l'Ue l'1,54% del Pil e 1.200.000 posti (139.140 dei quali in Italia). Nel caso di "una Brexit consensuale”, invece la perdita si aggirerebbe attorno allo 0,38% del Pil e 280 mila posti di lavoro" per i 27 Stati dell'Ue, mentre per "il Regno Unito andrebbero in fumo l'1,2% del Pil e 140mila posti di lavoro".
InL’incertezza riguarda anche gli italiani che vivono in Gran Bretagna, circa 700mila, che in caso di “no deal” si ritroverebbero all’improvviso in un Paese extra-comunitario, perdendo l’attuale status giuridico. Lo stesso vale per i britannici che vivono nell’Unione che diverrebbero extracomunitari. Anche in caso di no deal, comunque, per gli italiani già residenti nel Regno Unito non ci saranno espulsioni, come previsto dalla "Convenzione di Vienna" del 1969.