La giustizia federale di Paranà, in Brasile, ha autorizzato la scarcerazione dell'ex presidente brasiliano, Inacio Lula da Silva, che scontava, dall'aprile del 2018, una condanna di 8 anni e 10 mesi per corruzione.
La sentenza segue la decisione della Corte Suprema, che ha deciso di eliminare la norma che impone il carcere ai condannati se questi perdono il primo ricorso in appello, stabilendo che le manette non possono scattare prima che siano stati espressi tutti i gradi di giudizio.
Appena lasciata la prigione di Curitiba, nel sud del Paese, ha dichiarato che continuerà a "lottare per i brasiliani". Lula è stata accolto da una marea umana che ha festeggiato la sua scarcerazione. Ha accusato la giustizia, la polizia e lo Stato brasiliano di aver tentato di "criminalizzare" la sinistra per i 580 giorni in cui è stato imprigionato per una condanna per corruzione.
"Avevo bisogno di resistere per combattere contro il lato marcio dello Stato, della Polizia federale, della Procura della Repubblica, della Giustizia. Hanno lavorato per criminalizzare la sinistra, Lula e il Partito dei Lavoratori", ha spiegato.
La prima cosa che Luiz Inacio Lula ha detto di voler fare, uscito dal carcere, è risposarsi. Ancora amatissimo dai brasiliani, Lula, 73 anni, lo aveva fatto sapere a maggio scorso, quando era ancora lontana la sentenza della Corte Suprema che stabilisce l'indispensabilità di tutti i gradi di giudizio per poter tenere un uomo in prigione.
"È innamorato, e la prima cosa che ha intenzione di fare è sposarsi", aveva scritto su Facebook Luiz Carlos Bresser-Pereira, suo ex ministro, che lo andò a trovare nel penitenziario di Curitiba. La futura sposa sarebbe, secondo quanto riporta il settimanale online Epoca, Rosangela da Silva, sociologa 40 enne, quasi la stessa età di Maria Leticia, la 43enne che Lula portò per prima sull'altare e che morì nel febbraio del 2017.
L'ex presidente brasiliano è oggi una icona della sinistra nel Paese guidato da Jair Bolsonaro, e forse l'uomo più temuto dall'attuale capo dello Stato. Le due condanne per corruzione e riciclaggio, una a 8 anni e l'altra a 12, non sono bastate a far dimenticare ai brasiliani gli anni in cui "Lula" (nomignolo che utilizzava fin da quando era sindacalista dei metallurgici: dal 1975 e per quasi tutti gli anni Ottanta, in piena dittatura, sfidò da capo del sindacato i militari al potere organizzando scioperi poderosi) ha guidato la più grande potenza dell'America Latina dal 2003 al 2010.
Leader indiscusso del Partito dei lavoratori, da lui co-fondato, Lula conquista la presidenza con un programma di economia sociale che, secondo le stime ufficiali, ha sottratto 29 milioni di persone alla povertà. Quando lascia il potere ha un tasso di popolarità superiore all'80%, del quale beneficerà Dilma Roussef, la compagna di partito che a lui successe alla carica di presidente.
Gli anni di Roussef e del successore di quest'ultima Michel Temer, entrambi travolti da scandali, devastarono l'immagine del Partito dei Lavoratori, che realizzò solo troppo tardi, e invano, di avere i propri capi storici in carcere o coinvolti in vicende giudiziarie e perse le elezioni presidenziali.
Vinse Bolsonaro, interpretando il vento populista di destra che aveva portato qualche anno prima Donald Trump alla Casa Bianca, ma molti sospettano oggi che quella partita fu truccata. Consapevole del vuoto carismatico che aveva lasciato otto anni prima, sebbene già in carcere Lula si mostrò determinato a gareggiare nelle elezioni, ma fu costretto a rinunciare da un verdetto in cui la Corte suprema, respingendo il ricorso (habeas corpus) degli avvocati che chiedevano l'esaurimento di tutti i gradi di giudizio, affermò che "la presunzione di innocenza non può portare all'impunità", una logica del tutto diversa da quella espressa nelle ultime ore dallo stesso tribunale.
Qualche tempo dopo emersero gli indizi di un presunto complotto, del quale l'ex presidente aveva sempre parlato. Lula era stato condannato in secondo grado, tra l'altro, per aver ricevuto dalla società di costruzione Oas tangenti per 3.7 million reais (circa 800 mila euro), che la società utilizzò per ristrutturargli un appartamento di lusso sulla spiaggia di Guaruja; in cambio favorì la società in tre contratti con la compagnia petrolifera statale Petrobras.
Fu "The Intercept", il sito di notizie fondato da Glenn Greenwald, l'uomo che aiutò Edward Snowden a svelare il sistema di sorveglianza globale messo in piedi dall'intelligence degli Stati Uniti, a mettere in rete lo scorso mese di giugno una mole di documenti riservati, mail, discussioni in chat private, foto, filmati che indicavano il ministro della Giustizia del Brasile, Sergio Moro, e diversi procuratori come artefici di una strategia per fare in modo che Lula finisse in carcere e non potesse, di conseguenza, candidarsi alle elezioni presidenziali del 2018.
Moro, che prima di diventare ministro nel governo di Jair Bolsonaro, aveva maneggiato l'inchiesta che portò Lula a una prima condanna nel 2017, avrebbe messo in atto, spiegò 'The intercept", una serie di "comportamenti non etici e inganni sistematici" nel corso dell'inchiesta denominata "Autolavaggio" (Lava Jata), pur affermando privatamente insieme ad altri magistrati "dubbi circa gli indizi per stabilire la colpevolezza di Lula".
Nelle conversazioni private, tra l'altro, ci si preoccupava di una intervista che l'ex presidente avrebbe potuto rilasciare poco prima delle elezioni mentre era in carcere: avrebbe potuto beneficiarne Fernando Haddad, il suo delfino, che poi perse le elezioni presidenziali a vantaggio di Bolsonaro. In quel momento e fino a settembre, quando la Corte suprema ne bocciò la candidatura presentata a agosto, Lula era rimasto il favorito nei sondaggi.