Nuova sparatoria in una scuola americana, questa volta alla Stoneman Douglas High School in Florida. Ancora un bilancio provvisorio delle vittime, perché ci sono 17 persone morte ma decine di feriti tra cui alcuni molto gravi.
E ancora una volta la dinamica è quella di un ragazzo, in questo caso un ex studente di 19 anni precedentemente espulso dalla stessa scuola, che entra armato e apre il fuoco. Prevedibile? Forse no, se per previsione immaginiamo la capacità di individuare il momento preciso e la dimensione di un evento.
Ma certamente, nel contesto americano, purtroppo questa sta diventando una storia già letta, sentita, vissuta decine e decine di volte.
A novembre scorso, dopo la sparatoria in Texas, il New York Times pubblicava un lungo articolo dal titolo “What Explains U.S. Mass Shootings? International Comparisons Suggest an Answer” in cui, dati alla mano, si delinea un quadro che lascia poco all’immaginazione.
Un Paese dove esiste un mercato interno delle armi così florido e poco controllato da consentire a chiunque di comprare un’arma al supermercato addirittura più facilmente che non una lattina di birra (l’età minima per acquistare alcolici è di 21 anni, per le armi non c’è limite in alcuni stati e in altri è tra i 16 e i 18 anni) non ha certamente fatto nulla nella direzione della prevenzione e gestione delle morti violente per arma da fuoco. In molti si chiedono, dice il quotidiano americano, la ragione della quantità di sparatorie e uccisioni di massa negli Stati Uniti.
E le regioni addotte sono tante: “Forse, qualcuno dirà, perché la società americana è particolarmente violenta. O sono le discriminazioni razziali che hanno allentato i legami sociali. O perché non c’è una vera e adeguata assistenza sanitaria che si prenda cura della salute mentale dei cittadini.
Queste spiegazioni hanno tutte una cosa in comune: anche se sembrano ragionevoli sono state dimostrate false dalla ricerca condotta in varie parti del mondo. Tutta la ricerca fatta, ed è ormai molta, arriva sempre alla stessa conclusione. L’unica variabile che spiega l’alto tasso di sparatorie di massa negli Stati Uniti è la presenza di un numero astronomico di armi.”
Il New York Times si riferisce alle ricerche e alle analisi fatte con dati da più paesi da Adam Lankford, del Department of Criminal Justice all’Università dell’Alabama che sul tema ha pubblicato diversi lavori. Dati confermati da un metastudio, pubblicato nel 2016 su Epidemiologic Reviews da Julian Santaella Tenorio della Columbia University che ha analizzato oltre 130 studi fatti in più di 10 paesi diversi. Tutti i dati, che spaziano in un periodo di tempo tra il 1950 e il 2014, dimostrano che la applicazioni di leggi restrittive sull’acquisto delle armi è strettamente correlato con la riduzione delle morti per arma da fuoco, sia in famiglia che in situazioni collettive e di massa.
Quante armi ci sono nei paesi del mondo e in Italia
Tra i 4 e i 10 milioni di armi da fuoco. Questo il numero più accreditato di armi in Italia secondo lo Small Arms Survey, un rapporto che, pur risalendo ben a dieci anni fa, resta il più accurato studio di settore, come cita anche il New York Times nell’articolo di cui sopra. Talmente tanto tempo che, dovendo fare riferimento a numeri così datati, viene da pensare che la vera notizia sia l’assenza di certezze e di studi recenti sul numero di armi in Italia.
Nel report americano, esce il ritratto del Belpaese come di un pesce piccolo, soprattutto se paragonato alle 270 milioni di armi da fuoco diffuse sul territorio americano. Negli Stati Uniti, infatti, già nel 2007 circolavano circa 90 armi ogni 100 persone, più che in Yemen (55%), Svizzera (46%) e Finlandia (45%). Il numero di armi personali possedute negli Usa non ha eguale nel resto del mondo, e si basa su un tessuto sociale che vede il diritto di possedere una pistola scritto nero su bianco sulla Costituzione a stelle e strisce.
Eppure, pur distanziandosi dagli Usa per numero di armi da fuoco detenute, secondo i dati delle Nazioni Unite l’Italia li segue con il triste primato di essere il primo paese del G8 per numero di omicidi commessi con arma da fuoco.
“Dati di questo tipo dovrebbero portare a monitorare il numero di armi presenti in Italia. Invece, viviamo in un paese in cui è possibile sapere quanti cellulari o automobili possiedono gli italiani, ma non quante armi da fuoco ci siano nelle loro case”. Giorgio Beretta è analista dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa (OPAL). Beretta e Opal hanno ripetutamente posto all’attenzione la necessità di un’informazione ufficiale e pubblica riguardo la diffusione di armi legalmente detenute in Italia. “Non dovrebbe essere un problema, considerato che il Viminale è in possesso dei dati: per legge, infatti, ogni arma da fuoco deve essere denunciata entro 72 ore”, continua Beretta.
La mancanza di un censimento affidabile
Una situazione che, come hanno mostrato alcuni casi di cronaca, si è aggravata con i tagli all’organico del corpo di Polizia di Stato, incapace di avere la certezza che tutte le armi da fuoco siano registrate. “Se devo fare una perquisizione in casa di una persona e verifico nel sistema se ha delle armi, potrei anche non trovare riscontro anche se quella persona magari in effetti ne possiede una. E questo perché non c’è materialmente una persona che aggiorna l’archivio. Ci saranno almeno cinque anni di arretrati”, ha racconta Luca Prioli del sindacato di Polizia di Stato Ugl Vicenza a VicenzaToday. Tanto che la mancanza di un censimento affidabile delle armi potrebbe avere pericolose conseguenze anche per gli operatori del settore.
Anche Agi ha contattato il Ministero dell’Interno, la Polizia di Stato e l’Istituto nazionale di statistica, ma il risultato è stato una sonora porta chiusa in faccia. Nei primi due casi, con la giustificazione di non poter rilasciare né il numero di armi detenute dagli italiani né quello di licenze, nel terzo perché non in possesso dei dati richiesti.
“Che non vi siano stati comunicati i dati del numero di armi poteva essere prevedibile. Strano, invece, che non vi siano stati inviati i dati relativi al numero di licenze, che invece solitamente sono forniti alle riviste del settore”, fa notare il referente di Opal. Infatti, stando ai dati pubblicati dalla rivista Armi e tiro, nel 2016 le licenze per difesa personale con armi corte e lunghe sono state 18.362. Se si sommano le licenze concesse a guardie giurate o per caccia e tiro sportivo, si supera la cifra di 1 milione e 100mila libretti.
Qualcosa purtroppo continua a non essere chiaro. Nel 2016 il Viminale ha detto alle riviste che l’anno precedente le licenze di caccia erano 774.679 e quelle per tiro sportivo 470.821. Nei dati diffusi nel 2017 però le cifre sembrano essere diverse. Sono infatti indicate come 719.172 le licenze di caccia del 2015 (quindi più di 55mila armi in meno di quanto precedentemente dichiarato) e 453.095 per tiro sportivo, anche qui con uno scarto di oltre17mila. In parole semplici, i dati non tornano. “Ecco perchè come OPAL chiediamo che il Viminale renda noti questi dati in modo ufficiale e pubblico: la prima richiesta è quella di trasparenza”.
“Impossibile sapere quante armi abbiamo in Italia”
Altro punto debole della catena, tutto italiano, il fatto che se pur identificassimo il numero di licenze, non si arriverebbe comunque ad avere sotto mano la cifra complessiva delle armi presenti in Italia, visto che una licenza dà la possibilità di possedere più di un’arma da fuoco. Un fatto simile a quanto avviene negli Stati Uniti dove una stessa persona può possedere più armi.
“Non vorrei che la mancanza di trasparenza sul numero di armi regolarmente detenute fosse un modo per evitare di attirare l'attenzione su un altro problema. Se si considera, infatti, che la legge italiana permette di detenere un numero illimitato di fucili da caccia è possibile che vi siano gruppi di persone che ne detengono, seppur tutti denunciati, una quantità consistente”, racconta Beretta. “Se pensiamo poi che fino all’aprile 2015, ovvero all'entrata in vigore del decreto antiterrorismo, anche le carabine semiautomatiche, ovvero quelle usate in varie stragi negli Stati Uniti, rientravano tra le armi da caccia e che, se acquistate prima del 21 aprile 2015, possono tuttora essere detenute come tali in denuncia, credo potrebbe emergere anche un problema riguardo alla diffusione di queste armi relativamente alla sicurezza pubblica“.
Un giro d’affari di 100 milioni di euro
In Italia, ci sono 1.300 punti vendita al dettaglio di armi e munizioni, ai quali si aggiungono più di 400 associazioni sportive dilettantistiche e tiri a volo. “Un sistema che, complessivamente, produce un volume di affari pari a 100 milioni di euro”. A dirlo l’Associazione nazionale produttori armi e munizioni sportive e civili (ANPAM) che ha sottolineato anche come la vendita sia più o meno uniforme in tutto il territorio, con picchi del 31% degli acquisti al sud e livelli di vendita che non vanno al di sotto del 20% nelle regioni di nord ovest e nord est. Tuttavia, oltre alle percentuali, neppure l’ANPAM ha rivelato ad AGI il numero delle armi vendute in Italia.
“Anpam ha certamente i dati precisi, visto che è in grado di fornire le percentuali di crescita e diminuzione delle vendite per tipologia e per provincie - conferma il referente dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa - Non capisco però perché i numeri continuino a restare un mistero: forse perché rivelerebbero un costante decremento delle vendite di fucili da caccia a favore di pistole e carabine non tanto per scopi sportivi ma per un eventuale utilizzo difensivo?”. Poca chiarezza, nonostante l’Italia abbia un ruolo tutt’altro che irrilevante nel mercato delle armi mondiale, essendo il secondo esportatore al mondo dopo Stati Uniti, e seguita da Germania, Brasile e Austria. Di queste armi, stando ai dati forniti da ANPAM, il 90% è destinato all’esportazione, mentre il 10% resta su territorio italiano.
Gli italiani hanno paura
Ma chi sono gli italiani che nascondono nel loro cassetto una pistola? Il 14% di chi ha un'arma da fuoco la ha per difesa personale. A dirlo un report della Commissione Europea di quattro anni fa, l’ultima indagine internazionale ad essersi posta questa domanda. Le disparità nei territori europei sono accentuate, e mentre in Svezia lo zero per cento di chi detiene un’arma adduce come motivo la difesa personale, in Italia questa risposta è data dall’8% mentre in Repubblica Ceca e Lettonia dal 44% di chi ha una licenza. Tanto che, in media, il 37% degli intervistati ha indicato come “alto” il livello di crimini correlati all’uso di armi da fuoco. E la percentuale più alta è proprio quella degli italiani (76%)
Pur non sapendo a quanto ammontano le armi in Italia, si può dire che nel 2016 le armi più utilizzate per uccidere sono state quelle da taglio (32,5%), seguite da quelle da fuoco (30,1%).
Anche l’analisi dell’arma utilizzata per i femminicidi familiari mette in luce alcuni elementi di specificità, visto che il 30,3% delle donne uccise in ambito familiare tra il 2010 e il 2014 è stata vittima di un arma da taglio, mentre il 28,2% da un’arma da fuoco. “Nel complesso degli omicidi volontari, invece, è l’arma da fuoco lo strumento più ricorrente (utilizzato nel 44,4% degli eventi) - si legge sul Rapporto Eures su Caratteristiche, dinamiche e profili di rischio del femminicidio in Italia - con una frequenza di circa venti punti percentuali superiore a quella osservata per le armi da taglio (24,7%)”.
Tuttavia, né la ricerca di Eures, né i dati del Senato, mostrano quanti di questi omicidi siano commessi da armi legalmente detenute e quanti da persone legate alla malavita.
Né c’è modo di sapere se il porto d’armi venga ritirato in caso di segnalazione di comportamenti violenti o a rischio da parte del detentore, come dimostrano alcuni fatti di cronaca recente inclusa la sparatoria di Macerata dove Luca Traini ha utilizzato un’arma che aveva regolarmente acquistato con porto d’armi sportivo come hanno riportato diverse testate, da Repubblica a il Giornale.
Peraltro, come sottolinea Daniele Tissone, segretario generale del sindacato di polizia Silp Cgil su un articolo di Huffington Post, secondo l’attuale normativa comunque la revoca del porto d’armi non è così semplice da attuare: “La licenza per difesa personale viene sottoposta a controllo dei requisiti ogni anno. Il certificato anamnestico necessario, poi, viene rilasciato dal medico di base e non c'è alcun controllo sull'uso, per esempio, di sostanze stupefacenti né una visita da parte di uno psicologo. A meno che l'autorità di polizia non ne venga a conoscenza autonomamente e intervenga di conseguenza; sospensioni dei titoli in questione sono altresì previste, a seguito di un iter particolare, qualora risultino denunce a carico dei titolari o si venga sorpresi a guidare in stato di ebbrezza.”
Ed è per questo che l’Osservatorio di Brescia sta creando un suo database degli omicidi e reati con armi detenute con regolare licenza. “Da inizio anno le vittime di arme da fuoco regolarmente detenute sono state più di 130, una ogni tre giorni”, chiude Beretta. Dati che dovrebbe far riflettere chi con troppa facilità propaganda l'uso delle armi per la difesa personale. “Sarebbe quanto mai pericoloso pensare di modificare le norme sulla legittima difesa senza rivedere in senso più rigoroso e restrittivo anche le norme che regolamentano la loro detenzione e, soprattutto, i controlli sui possessori. Il problema della sicurezza non si risolve con la diffusione delle armi”.