E' diventato un museo il vecchio ufficio dei servizi segreti albanesi, l'edificio di Tirana da cui il regime del dittatore Enver Hoxha controllava vite, azioni e talvolta i sussurrati pensieri dei cittadini nel Paese comunista più blindato d'Europa.
Alla "Casa delle Foglie", questo il poetico nome dell'edificio ricoperto d'edera e trasformato in museo, si reca ormai da pensionato il signor Nesti Vako, 74 anni, che ci andava regolarmente per lavoro quando faceva la spia del regime. "Disponevo di un tavolo, del caffè e di un minimo equipaggiamento" ha raccontato all'Afp. Al museo sono in mostra gli utensili e in un certo senso i metodi di un'epoca durata oltre un cinquantennio, fino agli anni '90 del secolo scorso. "Mettevamo microfoni negli alberghi, nelle ambasciate... Erano nascosti sotto i tavoli, le sedie, nelle lampade" racconta Vako.
Duplicavano le chiavi per entrare dovunque
Il museo è dedicato "alle vittime innocenti di spionaggio, persecuzioni, arresti, condanne e esecuzioni di un regime che ambiva a instaurare un pieno controllo sui corpi e le anime" dei propri cittadini, spiega una targa all'ingresso. I diversi apparecchi per catturare le conversazioni sono esposti in una delle stanze: sono fabbricati in Cina, in Germania, Giappone e nella stessa Albania. Qualunque espressione di dissenso era proibita nell'Albania di Hoxha, come lo erano i riti religiosi e i viaggi all'estero. Un altro spazio è dedicato ai laboratori dove si fabbricavano i duplicati delle chiavi per consentire l'accesso degli agenti a qualunque porta e a quelli dove venivano controllate con agenti chimici e biologici tutte le lettere indirizzate a Hoxha.
Visibili, tra gli accessori utilizzati dai servizi albanesi, anche alcuni articoli buffi, come un mantello nero per meglio dissimulare la presenza nell'ombra. Meno buffe le conseguenze della stretta sorveglianza sulla vita del Paese. Secondo l'Associazione albanese degli ex prigionieri politici, 5.577 uomini e 450 donne furono giustiziati durante il regime, mentre decine di migliaia furono i condannati ai lavori forzati o al carcere.
Ai lavori forzati nelle miniere di rame
Saimir Maloku, 71 anni, è tra i reduci del campo di Spac, 94 chilometri a nord-est di Tirana, e racconta di avervi vissuto sei anni come "nell'inferno di Dante". Nel campo erano detenuti i "nemici dello Stato" condannati ai lavori forzati in una miniera di rame e di pirite. "In alcune gallerie della miniera - racconta Maloku - le temperature superavano di molto i quaranta gradi. Ero un morto vivente...", dice il reduce che dopo i sei anni a Spac ne scontò altri tre in carcere con l'accusa di essere stato un informatore del governo britannico.
Esiste un progetto anche per il recupero del campo di Spac, oggi in rovina, per cui sono stati disposti lavori urgenti finanziati da una ong basata in Svezia, allo scopo di creare un memoriale e un museo sul sito dell'ex miniera.
Il signor Vako, comunque, non è rammaricato per le mansioni che svolgeva: "Sono fiero del mio lavoro. Cosa abbiamo mai fatto? Verificavamo informazioni per accertare se ci fossero individui dediti ad attività anticostituzionali".