Le rivoluzioni e le democrazie muoiono nell’indifferenza. In Egitto, in questi giorni, il presidente uscente e rieletto a valanga al-Sisi ha faticato non poco per portare la gente a votare. Perché non aveva avversari credibili, e perché il suo governo non ha portato il Paese fuori della crisi economica.
Poco conta, a questo punto, avere ottenuto il 90 percento dei suffragi. È quel 40 percento di cittadini che si sono presi il disturbo di andare al seggio il dato che conta. La volta precedente erano il 47. Il generale divenuto l'uomo forte del paese arabo puntava per lo meno al 50: ha avuto, nel successo, una sonora bocciatura. “Pane, libertà e democrazia” era lo slogan di Piazza Tahrir, versione nobilitata di panem et circenses.
Purtroppo poco di quel programma è stato realizzato nei paesi che furono protagonisti della Primavera Araba. E che oggi sembrano, in molti casi, pronti a nuovi passi eclatanti.
Un malessere non solo politico
Diverso il discorso in quegli stati arabi, come il Marocco, in cui – magari senza aspettare i moti di piazza - è stata data nuova spinta al processo di democratizzazione e riforma economica. Ma si tratta di casi isolati, perché i segnali che rimbalzano da altre capitali sono di segno opposto. Algeria e Giordania sono state teatro di una serie di proteste nei mesi scorsi che, pur senza sfociare in violenze indiscriminate, costituiscono un precedente preoccupante. Sempre a gennaio la Tunisia è di nuovo scesa in piazza contro il rincaro del carburante, non a caso nell’anniversario delle Rivoluzione dei Gelsomini.
La Libia e lo Yemen non sono ancora usciti dalle loro sanguinose guerre civili, per non parlare della Siria. Ma il malessere che pervade le società arabe non è solamente politico: è economico e sociale. E ha a che fare con un tasso di disoccupazione che nell’area è tra i più alti del mondo, con l’incapacità dei nuovi governi di assicurare quei servizi di welfare su cui si basava molto del consenso accordato ai regimi precedenti, con le aspettative deluse del ceto medio. È stato quest’ultimo il vero protagonista delle primavere del 2011, in Tunisia come anche in Egitto ed altrove. Da allora però quella che è la struttura portante di qualsiasi democrazia, a qualsiasi latitudine, è andata incontro ad una serie di cocenti delusioni.
La sfida demografica
La situazione è resa ancora più instabile dall’incremento demografico, che nell’area è stato tumultuoso ed ha portato l’Egitto da solo a superare i cento milioni di abitanti nel 2017. Proprio in Egitto al-Sisi ha cercato di affrontare le emergenze con una serie di misure che si possono sintetizzare con una frase: ricorrere all’indebitamento con l’estero. Questo gli ha permesso di continuare per un po’ con la politica dell’assistenzialismo, ma alla fine si è dovuto arrendere e varare alcune misure restrittive, come l’aumento dei prezzi del pane e la stretta sui salari del pubblico impiego.
Le autorità monetarie internazionali hanno apprezzato, notando la discesa dell’inflazione (che comunque resta al 30 percento), ma si tratta di una magra consolazione di fronte al fatto che l’unico vero impulso ad una sorta di ripresa economica è venuto dalla svalutazione della sterlina egiziana e dalla ripresa del turismo. Settore, quest’ultimo, che ha potuto riprendere fiato grazie alla maggiore sicurezza assicurata dalle azioni repressive contro il terrorismo delle autorità. In fondo però è un gatto che si morde la coda: per creare ricchezza aumento la repressione, verso i terroristi ma alla fine non solo quelli. E chi sperava nella libertà si scopre ad essere ancora più deluso. Non era il sogno della primavera 2011.
Persino un paese che è sinonimo di stabilità, o anche più, come l’Arabia Saudita si vede costretta a far i conti con la nuova realtà, e non solo per via dei missili dei ribelli yemeniti che ogni tanto riescono a raggiungere Riad. Il tentativo di riforme, portato avanti anche grazie all’appoggio dell’amministrazione americana, porta il sigillo della Casa di Saud e del nuovo principe ereditario Salman.
Ma il regno non è abituato alla benché minima politica di austerity, e la stessa filosofia della distribuzione dei profitti del petrolio è il collante che tiene insieme le famiglie. Non è un caso se Salman abbia operato, nei mesi scorsi, anche una lunga serie di arresti eccellenti, chiaramente volti a ribadire l’autorità della dinastia. E la riduzione dei benefici al pubblico impiego ed alle forze armate, una volta introdotta, è durata appena sei mesi. Troppo a lungo per essere una primavera, troppo poco per mascherare la debolezza del trono.